Guardando alle vicende italiane va di moda parlare di crisi della democrazia. Addirittura, un leader politico di opposizione ha paragonato Berlusconi a Gheddafi e auspicato che anche in Italia si verifichi una ribellione come quelle del Nord Africa. A parte l’irresponsabilità di questi discorsi (invocare la guerra civile è sempre pericoloso), non penso che in Italia stiamo vivendo in un regime autoritario, né penso vi sia un rischio immediato di fine della democrazia. Penso invece che vi siano rischi di perpetuazione di una situazione cronica di disfunzionalità del sistema e, inoltre, seri rischi di frantumazione del nostro sistema statale: dovremmo evocare un po’ più spesso l’immagine dei failed states, piuttosto che quella della fine della democrazia.



Da molti anni ormai – nel corso della cosiddetta Seconda repubblica – l’Italia è soggetta ad un processo riformatore tendente a introdurre forme di decentramento di tipo federale. Dagli anni ’70 (instaurazione delle regioni) ad oggi sono stati introdotti vari provvedimenti miranti a rafforzare il sistema delle autonomie: cito solo le leggi Bassanini del 1997, la legge costituzionale sull’elezione diretta dei presidenti delle giunte regionali e l’attuazione dell’autonomia statutaria delle regioni (1999), la devolution del 2001. L’istituzione del federalismo promossa nel 2005 dal II governo Berlusconi è stata poi bocciata dal referendum costituzionale del 2006.
Il vero problema è che questi cambiamenti si sono innestati su un sistema politico e su un sistema di partiti deboli. L’instabilità costituzionale rappresenta un elemento di ulteriore indebolimento: diventa difficile una stabilizzazione del sistema (partitico e politico in generale) se si resta in uno stato di permanente riforma del sistema costituzionale. L’incertezza rischia veramente di trasformarsi nella nostra vita quotidiana.



La lunga storia delle riforme mancate
Il punto è che si parla di riforme istituzionali dagli inizi degli anni ’80, quando le proposte riformiste escono dallo stretto recinto di intellettuali e politici fino a quel momento del tutto emarginati e inascoltati (Giuseppe Maranini, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno e pochissimi altri) per essere fatti propri da un leader indiscusso come Bettino Craxi e da un partito di governo come il Partito socialista.  Da allora ben poco è stato fatto e la Seconda repubblica non è mai nata, neppure quando le vicende internazionali (crollo del Muro di Berlino, trattato di Maastricht e nascita dell’Ue) e quelle interne (inchieste di Tangentopoli, referendum elettorali, sbriciolamento della vecchia élite politica) lo avrebbero reso più urgente e possibile. Ne deriva un paese sostanzialmente “bloccato”, incapace di rinnovarsi, poco propenso al rischio, ripiegato su se stesso, scarsamente reattivo. Quali le ragioni di tutto ciò?
Le ragioni sono tante e probabilmente dovremmo andare a fondo nell’analisi storica per essere esaurienti su questo punto. Ne cito solo due, che mi sembrano tra le più importanti: una politica fatta di contrapposizioni estreme e l’assenza di un disegno riformista complessivo. La perpetuazione delle contrapposizioni è tipica del nostro bipolarismo. Al di là delle tante nostalgie della Prima repubblica, oggi moneta corrente che io non condivido, ritengo l’approdo dell’Italia al bipolarismo una utile conquista che conferisce chiarezza alla lotta politica e che dà agli elettori una maggiore voce in capitolo sulla scelta del governo. Ormai tutte le democrazie sviluppate sono saldamente bipolari e l’Italia ha finito per allinearsi a questo modello di confronto politico. Il punto è, però, che il nostro è un bipolarismo malato. Un sistema bipolare dovrebbe mostrare, se vuole funzionare, una competizione centripeta (è l’elettorato di centro che, spostandosi da una parte all’altra dell’asse sinistra-destra, determina la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento). In realtà, la presenza della Lega nel centrodestra e della sinistra antagonista e giustizialista nel centrosinistra determina uno spostamento delle competizione verso dinamiche centrifughe: le due estreme sono purtroppo essenziali per vincere le elezioni e i moderati delle due coalizioni sono costretti ad indossare panni più “radicali”, con uno spostamento verso una maggiore polarizzazione del sistema, estremamente negativa per la governabilità e la stabilità. Il risultato di tutto questo è sotto gli occhi di tutti: la pessima abitudine a demonizzare e delegittimare l’avversario (che assume le sembianze di un vero e proprio nemico) e la scarsa attitudine al negoziato e alla collaborazione dei due poli su materie (come quelle di natura costituzionale) che richiederebbero un minimo di cooperazione istituzionale.



Noi riusciamo a dividerci anche sulla celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia. Massimo Salvadori ha scritto che la ricerca dell’unità è avvenuta sempre contro un’ “altra Italia”, all’insegna della delegittimazione reciproca: cattolici contro laici, fascisti contro antifascisti, comunisti contro anticomunisti, berlusconiani contro antiberlusconiani. Le riforme di sistema necessarie non sono mai passi condivisi, ma spesso sono fatte contro l’opposizione, a prescindere dal colore politico. Esistono ampi margini di accordo tra i volenterosi delle due coalizioni per una seria riforma della giustizia, della pubblica amministrazione, delle istituzioni, ecc., ma la logica delle contrapposizioni e il potere di ricatto delle estreme impediscono ogni accordo serio. Col risultato che a volte la destra adotta e fa sue leggi a suo tempo proposte dalla sinistra, con la opposizione di quest’ultima (il caso della riforma dei concorsi universitari è emblematico), e viceversa.

CLICCA QUI PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO SUL FEDERALISMO ALL’ITALIANA

E qui vengo alla seconda ragione dello stallo del nostro sistema politico: si fanno riforme in assenza di un disegno coerente e complessivo, cercando di contentare un po’ tutti e finendo per scontentare un po’ tutti, con esiti del tutto modesti quando non addirittura dannosi. Un esempio che giudico particolarmente calzante è il faticoso processo di decentramento e di federalizzazione verso il quale si sono proiettati i governi (di destra e di sinistra) degli ultimi 15 anni. Personalmente non sono ostile a riforme in senso federale (ho fatto parte della prima commissione ministeriale che doveva elaborare un progetto in questo senso tra il giugno e il dicembre 1994), ma non in questo modo.

 

Come hanno messo in evidenza altri studiosi (penso ad Augusto Berbera e a Marcello Fedele), il federalismo che abbiamo costruito e stiamo costruendo è un federalismo a “tre punte”, che si compone dell’autonomia di Stato, regioni e comuni, in un intreccio di competenze che rende però estremamente difficoltoso ogni processo decisionale. Scrive Fedele nel suo ultimo libro (Né uniti né divisi. Le due anime del federalismo all’italiana, Donzelli, 2010) che “le regioni devono tener conto delle indicazioni che nascono nei consigli per le autonomie; le aree metropolitane riconoscono poteri di proposta e di amministrazione ai municipi, così come una miriade di enti rivendica duramente la propria mission, grazie anche alla protezione di corporazioni locali…”. Ogni filiera d’intervento raccoglie istituzioni e organismi diversi, rendendo sempre più faticoso il processo di formazione delle politiche pubbliche: la lunga serie di competenze concorrenti tra Stato e regioni (art. 17 Cost.) mette in evidenza “un intreccio difficilmente governabile perché basato su ampie aree di sovrapposizione burocratica”.
L’assenza di ogni processo di riorganizzazione del potere locale in funzione della riforma federale, e probabilmente a causa della mancanza di forza per fronteggiare le infinite rivendicazioni su base locale, è dimostrata in realtà sia dalla mancata eliminazione delle province, sia dalla non diminuzione dei comuni. Le province, che dovevano essere abolite dopo il 1970, sono aumentate dalle 91 del 1947 alle 110 di oggi, anche per merito della Lega, un’esagerazione se si pensa alle 50 province della Spagna; neanche i comuni si sono ridotti e dagli 8382 del 1871 siamo passati agli 8101 di oggi, incluso quello di Pedesina con 34 abitanti. In Italia è mancata quella riduzione dei comuni (o municipalità) che invece si è avuto il coraggio di realizzare altrove: in Danimarca (da 1378 a 277), in Inghilterra (da 1549 a 522), in Germania (da 14338 a 8414), perfino la Grecia dove, con legge ordinaria del 1997, comuni e municipi sono passati da 6775 a 1033 unità. Di fatto, in Italia non solo non si è ridotto il numero degli enti locali, ma si è continuato a dividere, senza procedere a quella ricostruzione del territorio che è condizione necessaria di ogni riforma federale e che dovrebbe cercare di legare la sacrosanta autonomia delle comunità territoriali ad una sovrastante comunità statale e nazionale.

 

E infatti, a quanto si vede, il paese si sta sempre più dividendo e la frammentazione del territorio prosegue in modo incessante in tutti gli ambiti. I sistemi turistici locali, i bacini d’utenza dei centri per l’impiego, gli ambiti di caccia, i distretti sanitari, i distretti industriali, le comunità montane, e via spezzettando, prescindendo da ogni considerazione di efficienza, ma quasi sempre seguendo logiche politico-clientelari del territorio. Col risultato della crescita del potere di ricatto di tutte queste entità locali che, per dimostrare l’utilità della propria esistenza, si oppongono a tutto, a prescindere come diceva Totò: all’alta velocità, alla realizzazione di grandi opere, a tracciati stradali, alla costruzione di centrali per l’energia, a degassificatori o discariche, alla dislocazione degli inceneritori. Va tutto bene, purché la dislocazione avvenga altrove, secondo un principio di “solidarietà comunitaria” che viene invocato continuamente ma solo quando sono gli altri che vi si devono conformare. Il tutto poi in un coro di lamentele e rivendicazioni per ogni taglio di risorse da parte dello Stato e sempre con il ricatto finale di tagliare servizi sociali, quando sappiamo benissimo che vi sono sprechi enormi a livello locale che non vengono eliminati per la solita logica clientelare che ne è alla base. Le assunzioni di massa alla regione Sicilia non fanno più neanche notizia; i privilegi delle classi politiche locali sono semplicemente scandalosi; la concessione di un macrofinanziamento per una ricerca anti-OGM, da parte di alcune regioni (Puglia e Lazio), insieme allo Stato, organizzata da una fondazione presieduta da Mario Capanna (laureato in filosofia!) grida vendetta in un momento in cui non ci sono abbastanza soldi per la ricerca e le università. Il bene comune, il rispetto per la cosa pubblica, la deferenza verso lo Stato sono ormai parte di un passato che non esiste più (e che in Italia, peraltro, è stato sempre assai debole). Inoltre: ha senso una riforma federale che non riesce a distinguere in modo efficace le formiche dalle cicale?
Un’ultima considerazione. La storia dei sistemi federali ci ha insegnato che qualsiasi riforma federale non può prescindere da un rafforzamento del governo centrale e da una riforma del parlamento. Un tentativo in questo senso era stato compiuto dal II governo Berlusconi con la riforma del 2005, che prevedeva maggiori poteri al Presidente del Consiglio e una radicale revisione del sistema bicamerale. Quella riforma aveva certamente molti difetti (il cosiddetto senato federale, in particolare, prestava il fianco a molte critiche), ma se non altro aveva capito la necessità di operare a più livelli. Fu osteggiata come uno sfregio antidemocratico alla Costituzione e affondata nel referendum. Oggi si sta varando una riforma federale che non risolve alcune delle pericolose debolezze del sistema centrale, aggravate da quelle di un sistema partitico in perenne fibrillazione, con il rischio di spingere il paese verso un’inevitabile disgregazione futura. Non è un bel modo di celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia.