Si è come appannato il ricordo del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta, il 16 marzo 1978. Ed è ormai relegata nelle sceneggiature dei film la morte successiva, il 9 maggio 1978. In questo periodo, secondo costume storiografico italiano, si sono consolidati una serie di luoghi comuni che, per chi visse quel periodo infestato dal terrorismo brigatista, risultano spesso insopportabili. Basta ricordare il monumento di Maglie, con la figura di Moro che ha sottobraccio “l’Unità”, organo del partito comunista; basta ricordare il famoso “pendolino di Romano Prodi”, che indica Gradoli, confondendo però un paese con la strada di Roma dove c’era un “appartamento strategico” del capo brigatista Mario Moretti;  basta  ricordare tutti i processi dove l’intera verità non è mai venuta a galla; basta ricordare i giorni del rapimento con quel “cadaverico” ( così disse Leonardo Sciascia) “Stato della fermezza” che non voleva trattare per la liberazione dello statista democristiano.



Moro ormai passa per una serie di stereotipo, l’uomo del dialogo che trattò con i comunisti per il “governo d’unità nazionale”. Chissà perché poi quegli stessi comunisti non mossero un dito e anzi minacciarono apertamente chi era del “partito della trattativa”. Come al solito lo schematismo della vulgata storica, diretta prevalentemente dai comunisti, non regge alla prova non solo di quello che è avvenuto dopo, ma anche di quello che era avvenuto prima. La politica di Aldo Moro, giovane giurista nella Costituente italiana, era più che mai lineare.



Un anno prima della sua morte, aveva urlato in Parlamento (lui che di solito non amava i toni accesi) verso i comunisti: “Non ci faremo processare in piazza da voi”. E in quel burrascoso 1977-1978, contrassegnato da una crisi di sistema, Moro aveva operato solo per una “tregua” con l’opposizione per uscire da un’emergenza italiana politica, sociale e istituzionale, non certo per un’alleanza di cui aveva sempre diffidato. Per comprendere bene l’ “Affare Moro”, bisogna ricordare la risposta che venne dagli italiani in una tornata amministrativa dopo il delitto dello statista democristiano: un autentico crollo di voti, il primo veramente significativo del Pci.



A ben guardare e ricordare quel periodo, va detto che il “delitto Moro”, fu un autentico spartiacque della politica italiana. Non a caso, Giuseppe Saragat, di fronte al cadavere dello statista ritrovato in una macchina in via Caetani, disse: “E’ morta la prima Repubblica”. L’assalto del terrorismo allo Stato era ormai diventato forsennato e, nello stesso tempo, c’era chi cavalcava irresponsabilmente l’emergenza italiana. In quel periodo si discuteva dello scandalo Lockeed e la prima edizione di un  grande giornale, la mattina del 16 marzo, riportava come titolo in prima pagina  che “Antelope Cobbler” ( il nome in codice dello statista italiano coinvolto) era Aldo Moro. Si dovette setacciare tutte le edicole d’Italia per ritirare quella prima edizione e sostituirla.

Ma i ripensamenti su Moro furono molteplici in quel periodo. Quando cominciarono ad arrivare le “lettere dal carcere del popolo”, che indicavano la via per salvarsi e poi per accusare diversi politici, si assistette a uno autentico scempio mediatico. Alcuni giornali sottoposero la calligrafia di Moro a psicanalisti ed esperti, per dimostrare che lo statista era praticamente in uno stato di completa irrazionalità. Poi arrivò la consueta lista di intellettuali, con moltissimi cattolici al suo interno, che dichiararono che quelle “lettere non erano moralmente ascrivibili a Moro”. Insomma, mentre lo  statista democristiano si batteva per la sua vita e protestava giustamente perché almeno si intavolasse una trattativa, i suoi “amici” rispondevano che “era diventato matto”.

In quel frangente fu addirittura bollata come “infame e opportunista”, la linea umanitaria scelta dal segretario del Psi, Bettino Craxi, a cui invece Moro scrisse in più di un’occasione per ringraziarlo e perché insistesse in quella che “era l’unica strada possibile”. I veleni che portò il “delitto Moro” furono incalcolabili. Parte delle lettere furono ritrovate più tardi e in altri luoghi, anche i più strani e imprevedibili, come quelli di via Montenevoso a Milano. Il delitto servì solo ad acuire i contrasti tra i partiti e a innescare una sorta di sospetti e di reciproci ricatti. Una delle storie più vergognose del Paese.

E’ probabile che la strategia brigatista sia alla fine crollata con quel rapimento e quel delitto, ma la seminagione maligna che aveva inquinato la realtà italiana, diede una spinta ulteriore al dissolvimento della prima Repubblica. Il decennio successivo fu certamente caratterizzato dalla
presidenza Craxi, ma da un’aggressività inusitata delle sinistre comuniste e cattoliche, che portano poi allo sfaldamento della prima Repubblica e alle più incredibili alleanze politiche e istituzionali.
Il dramma attuale, nel ricordo di quel delitto, è che poco è stato chiarito: quanti uomini c’erano in via Fani la mattina del 16 marzo? chi assicurava tutti gli apparati logistici delle colonne brigatiste? chi erano i veri mandanti di questa incredibile operazione militare? In Commissione Moro, i commissari ascoltarono stupefatti la ricostruzione della  “prova del pendolino” di Romano Prodi, e allargarono le braccia. Forse alcuni compresero che l'”affare Moro” era senz’altro servito ai deliri di  potenza brigatista, ma faceva comodo a molti altri settori della società italiana