È noto che nella Costituzione è posto il principio del favor familiae, vale a dire è garantita una speciale posizione di tutela accordata alla famiglia. Anzi, se si fa un rapido confronto con le Costituzioni degli altri Stati europei, si nota che un impegno così preciso come quello indicato nel primo comma dell’art. 31 della Costituzione (“La Repubblica agevola con apposite misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi con particolare riguardo alle famiglie numerose”), non è previsto neppure nella Costituzione irlandese, che pure è tra le più attente a dedicare norme a vantaggio della famiglia (v. gli artt. 41 e 42 della Costituzione irlandese).



A questa positiva singolarità della nostra Costituzione corrisponde, tuttavia, una realtà ben diversa. Come mai, a più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale, l’impegno così solennemente promesso a favore della famiglia, non si è sinora tradotto in una effettiva politica di vantaggi fiscali o quanto meno di non discriminazione dal punto di vista del trattamento fiscale? Sul perché la prescrizione del costituente sia stata sinora trascurata o addirittura preclusa nei fatti, la risposta del giurista è piuttosto facile. Si tratta, infatti, di una norma che, imponendo un obbligo positivo per il legislatore, è rimessa – nella determinazione del quando e del come applicarla – proprio alla scelta discrezionale di quest’ultimo. Essa, dunque, in assenza di corrispondenti norme di attuazione coerentemente predisposte dal legislatore, è sostanzialmente priva di forza cogente, se non nel senso di proibire un trattamento ingiustificatamente deteriore.



Al di là degli sforzi teorici, insomma, neppure la Corte costituzionale, in caso di inerzia del Parlamento, può imporre l’adozione di misure legislative di vantaggio per la famiglia in materia economico-finanziaria. In particolare, sebbene siano stati presentati numerosi progetti – anche assai seri e autorevoli – nel senso dell’istituzione di un quoziente familiare che consenta un trattamento fiscale davvero più equo per le famiglie, le sempre immanenti ragioni di bilancio sembrano tuttora prevalere sul complessivo ribilanciamento del sistema tributario, soprattutto in ordine all’identificazione dei soggetti passivi della pressione tributaria, come anche dimostrato dai dati recentemente offerti dalle istituzioni pubbliche in tema di distribuzione del carico fiscale.



Pur così stando le cose, e scontando ovviamente quanto può essere attribuito in capo alla responsabilità delle forze politiche che hanno via via guidato la collettività dal 1948 sino ai giorni nostri in relazione alle diverse situazioni e contingenze economico-finanziarie variamente propostesi all’attenzione del decisore pubblico, qualche indicazione di diverso segno può essere segnalata al fine di incentivare l’effettiva concretizzazione del dettato costituzionale.

Infatti, la tematica di un fisco più giusto a favore della famiglia può divenire nuovamente di attualità alla luce del prossimo avvio della fase di concreta attuazione del federalismo fiscale delineato dalla legge delega n. 42 del 2009. In breve, ciò che lo Stato non è stato sinora in grado di determinare in prima persona, potrebbe trovare attuazione dal basso, cioè partendo dalle nuove modalità di reperimento delle risorse finanziarie da parte delle autonomie territoriali.

Anzi, da questo punto di vista, la legge sul federalismo fiscale ha espressamente previsto, tra i principi della delega, proprio quello di assicurare “piena attuazione” a tutti i precetti costituzionali che impegnano la Repubblica ad operare nel senso del  favor familiare. Tra i “principi e criteri direttivi generali” che tutti i decreti legislativi devono o comunque dovranno rispettare (ivi compresi, dunque, quelli integrativi e correttivi), vi è quello relativo alla “individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli  articoli  29,  30  e  31  della  Costituzione, con riguardo ai diritti  e  alla  formazione  della  famiglia  e  all’adempimento dei relativi compiti” (art. 2, comma 2, lettera gg) della l. n. 42 del 2009).

A ben vedere, nel primo decreto realmente incisivo sul costituendo assetto tributario della Repubblica, quello cioè sul federalismo municipale, è venuto meno quanto in una certa fase del procedimento di formazione sembrava profilarsi in ordine alla costituzione di un apposito fondo messo a disposizione dei Comuni anche per interventi a favore delle famiglie più numerose e meno abbienti.

Rimangono alcune disposizioni, per lo più di contorno, che potrebbero consentire ai Comuni l’esercizio di una qualche potestà regolatoria da esercitarsi – sempre qualora la volontà politica fosse concretamente questa – anche nel senso del favor familiae. Così, i Comuni, con proprio regolamento, potranno prevedere “esenzioni e riduzioni per particolari fattispecie” in relazione all’imposta di soggiorno (v. l’art. 4, comma 3, del d.lgs in questione). Oppure, in relazione all’imposta municipale secondaria  – che avrà per presupposto l’occupazione di beni appartenenti al demanio o patrimonio pubblico, e dunque non in diretta connessione con le tipiche redditualità delle famiglie –  i Comuni, sempre con proprio regolamento, avranno la facoltà di disporre esenzioni o agevolazioni “in modo da consentire una più piena valorizzazione della sussidiarietà orizzontale” (v. art. 11, comma 2, lett. f del d.lgs in questione).

Viceversa, il decreto relativo alla fiscalità regionale, che attualmente è all’esame della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, sembra maggiormente propenso all’instaurazione di una politica fiscale più vicina alla famiglia. Secondo lo schema di decreto legislativo, le Regioni “nell’ambito dell’addizionale di cui al presente articolo (cioè l’addizione regionale all’IRPEF) possono disporre con propria legge detrazioni in favore della famiglia, maggiorando le detrazioni previste dall’art. 12 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917” (art. 5, comma 4). In vero, sul versante delle opposizioni si è recentemente proposto di ridurre i margini di autonomia regionale sull’addizionale IRPEF, anche facendo appello al fatto che così si introducono “forme di progressività specifiche per regione che fanno aumentare i costi di adempimento per i sostituti di imposta, e rendono difficile la determinazione della capacità fiscale standard che è alla base del funzionamento del sistema dei trasferimenti perequativi” (queste le argomentazioni presenti testualmente nelle proposte di modifiche presentate dal Partito democratico nella seduta del 9 marzo 2011 della citata Commissione Bicamerale).

Sul punto, ci si dovrebbe chiedere se il “costo” aggiuntivo determinato dalla manovrabilità regionale dell’addizionale, così come il ruolo presuntivamente attribuito all’addizionale regionale rispetto al complesso sistema perequativo  costruito dalla legge, costituiscano fattori effettivamente e ragionevolmente comparabili rispetto alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali quelli qui in esame, espressamente richiamati dalla medesima legge di delega.

Ancora, se si vuole inserire la questione in una prospettiva più generale, vanno richiamate le feconde esperienze che a livello locale fanno già applicazione di “quozienti” ovvero di metodologie che – in relazione alla determinazione dei costi dei servizi pubblici locali o dei requisiti di accesso all’offerta di questi ultimi – tengono conto della famiglia, della numerosità di quest’ultima e degli specifici oneri, in modo più avvertito e consapevole rispetto al passato. Dall’esperienza del “quoziente Parma” sino all’elaborazione del “quoziente Roma”, la realtà sembra dimostrare che l’attenzione del versante pubblico nei confronti delle famiglie può nascere più facilmente e diffusamente dal basso per poi, auspicabilmente, consolidarsi nei rami alti del sistema. In un’Italia che frequentemente decide se trova ragioni nelle “imposizioni esterne” – come spesso si dice a proposito dell’Europa – questa strada potrebbe essere il segno iniziale di un buon esempio di felice autogoverno.  

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