Domenica Benedetto XVI proclamerà beato papa Giovanni Paolo II, nel giorno che egli stesso volle intitolare alla Divina Misericordia e che si annuncia come una grande festa della fede.
«Per me Wojtyla è stato il papa della libertà ed è il santo della libertà» dice di Giovanni Paolo II il Patriarca di Venezia, Angelo Scola. «Una libertà però che ha continuamente bisogno di essere liberata». E solo la fede in Cristo può farlo. Una fede, spiega Scola in questa intervista a ilsussidiario.net, «divenuta lungo tutto l’arco della sua esistenza il fattore primario di conoscenza»: «di sé, degli altri e di Dio».



Eminenza, che ricordo personale ha di Giovanni Paolo II?

La prima volta che salii sull’altare con lui, nel 1979, rimasi colpito dal suo modo di celebrare. Giovanni Paolo II era un papa “mistico”, che viveva un rapporto di straordinaria immediatezza con Dio. Non c’è da sorprendersi che la gente ne abbia invocato fin dal giorno della sua morte la santità. Bastava vederlo pregare. Quando si andava a pranzo da lui, si passava per la cappella a dire l’Angelus. Tutti noi pensavamo che fosse una questione di 30 secondi. A volte, invece, durava così a lungo che non si riusciva più a stare in ginocchio sul pavimento. Il papa si immergeva davvero nella preghiera, per lui non c’erano più né tempo né spazio. Lo si vedeva anche dal movimento delle labbra. Nella sua preghiera io ho percepito – o meglio, ho visto – un dialogo con Dio profondo, ininterrotto. Come un respiro, il Santo Padre emetteva dei suoni come il gorgogliare di un torrente che non si ferma mai. Una cosa impressionante.



«Cercano di capirmi dal di fuori, ma io posso solo essere capito dal di dentro», disse Karol Wojtyla. Che cosa unifica, in una delle personalità più ricche del novecento, l’uomo, il filosofo, il poeta, il sacerdote, il papa?

Certamente la fede. La fede intesa, in senso compiuto, come l’appoggiarsi totale a Cristo Gesù che spalanca a una concezione compiuta di tutto l’umano. La personalità, le diverse esperienze di vita di Giovanni Paolo II, la sua versatilità – fu appunto poeta, filosofo e teologo – si alimentarono fin dalla più tenera infanzia attraverso la liturgia, la preghiera, l’appassionato senso dei rapporti, l’apertura sempre curiosa della realtà, il dono totale di sé. Questa fede, respirata dai genitori, è divenuta lungo tutto l’arco della sua esistenza il fattore primario di conoscenza di sé, degli altri e di Dio. In lui tutto partiva veramente dal di dentro e, dopo aver attraversato tendenzialmente tutto il reale, ritornava potenziato al suo cuore.



Lei come si è accostato alla personalità di Karol Wojtyla e come si è approfondito, nel tempo, il suo «incontro» con il magistero di Giovanni Paolo II?

Io ho avuto modo di incontrare di sfuggita Karol Wojtyla nell’ambito della redazione internazionale di Communio, ma il mio rapporto si è andato approfondendo dopo l’elezione al soglio pontificio. Come le dicevo, il primo incontro con lui papa fu una concelebrazione con mons. Giussani e mons. Camisasca nel febbraio del 1979 nella sua cappella privata, seguita da una colazione. Le forme della collaborazione sono state in seguito legate soprattutto al mio insegnamento all’Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi sul Matrimonio e Famiglia, in qualità di consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e in quanto rettore della Pontificia Università Lateranense, nota come l’Università del papa. Ho avuto modo così di approfondire il Magistero nelle celebri catechesi sull’uomo-donna e sul corpo umano, nella Mulieris Dignitatem e più in generale nei problemi del matrimonio e della famiglia. Questo mi ha portato a studiare le opere filosofiche e antropologiche di Wojtyla (soprattutto Persona e atto) e a paragonarmi con quel capolavoro che è Amore e responsabilità così come, sul piano pastorale, con il celebre volume Alle fonti del rinnovamento. Il mio lavoro sul pensiero di Wojtyla è poi continuato con le encicliche trinitarie, con gli insegnamenti di carattere morale e sociale. Ho fatto confluire il mio debito, che è anzitutto umano prima ancora che dottrinale, nel volumetto L’esperienza elementare, pubblicato qualche anno fa.

Uno dei cliché più diffusi su Giovanni Paolo II è quello di «grande comunicatore» (esattamente come Benedetto XVI sarebbe il teologo, custode dell’ortodossia; quasi che Wojtyla non lo fosse). Non pensa che nella parziale verità di quella sbrigativa semplificazione ci sia a volte un’operazione ideologica?

Nell’ideologia, volente o nolente, ogni uomo cade. Per questo bisogna sempre liberarsene ricorrendo all’autocritica, così come ci si deve liberare dagli inevitabili pregiudizi. La semplificazione accennata è, appunto in quanto semplificazione, ideologica. Bisogna liberarsene. Una cosa è la differenza di personalità e di carismi che corre tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, altra cosa è la profonda unità e continuità nell’esercizio del ministero petrino di questi due papi. Uno sguardo libero e purificato dall’ideologia non può non riconoscere questa unità e salutare come un grande dono per la Chiesa l’originalità di ciascuno di questi due pontefici.

Nel metodo e nell’insegnamento filosofico e pastorale di Wojtyla, e poi nel suo magistero, l’esperienza occupa un posto fondamentale. Può spiegare in che cosa consiste questa centralità?

Consiste nel fatto che ogni uomo a qualunque tempo e luogo, cultura o religione appartenga, partecipa di un’«esperienza comune» a tutti. Wojtyla ha riflettuto profondamente su questa esperienza comune. In proposito vi è un passaggio decisivo in Persona e atto, a cui tutta la sua azione si è sempre ispirata. In esso egli afferma con forza che aldilà delle grandi diversità che caratterizzano gli uomini e anche aldilà delle visioni filosofiche e culturali spesso opposte che connotano il pensiero, esiste un’esperienza comune a tutti gli uomini sulla quale si può fondare sia una pratica di vita buona, che un’adeguata riflessione filosofica e religiosa. Del resto la teologia stessa altro non è se non una riflessione sistematica e critica sull’esperienza di fede della comunità cristiana. Ovviamente la storia del pensiero dimostra che la categoria di esperienza è assai delicata e va trattata con particolare cautela.

«Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia». Che cosa ha rappresentato per la Chiesa e per l’uomo contemporaneo l’annuncio col quale nel 1979 si apriva la prima enciclica di Giovanni Paolo II?

Posso dire che cosa ha rappresentato per tutto il mondo a partire dalla situazione italiana di allora: uscivamo dall’angoscioso 1978, anno legato alla tragedia di Moro e alla morte di Paolo VI. Con l’affermazione decisa «Gesù Cristo è il centro del cosmo e della storia», Giovanni Paolo II dava contenuto allo straordinario grido con cui spalancò l’umanità intera alla speranza nel giorno del suo inizio di pontificato: «Non abbiate paura».

Giovanni Paolo II ha scommesso molto sul protagonismo del fedele laico, il battezzato, per rendere contemporaneo Cristo all’uomo d’oggi. Addirittura nel 1998 ha parlato di coessenzialità tra movimenti e istituzione nella missione della Chiesa. Che cosa ha significato questa direttiva per la vita della Chiesa?

Certamente il papa, che era stato studente, operaio, attore, appassionato amico di ebrei, energico e intelligente contestatore sia dell’utopismo nazista che di quello marxista, nonché straordinario educatore e sacerdote, viveva in sé una pienezza di umanità. Incontrandolo si percepiva immediatamente che egli era veramente anzitutto un uomo e questo esaltava ancora di più la dimensione sacerdotale della sua persona. Un simile papa era quindi portato a percepire la decisività della vocazione e della missione del fedele laico. Si deve però sottolineare che nella Christifideles laici, il papa non parla semplicemente di «laico», ma parla di «fedele laico». Si tratta del cristiano che è chiamato, in ogni ambito dell’umana esistenza, a far trasparire sul suo volto la bellezza sempre rinnovatrice dell’incontro con Cristo.

E quanto ai movimenti?

L’intervista continua su angeloscola.it