Da lunedì 9 maggio fino al 29 luglio presso Gallerja saranno esposte le opere dell’artista boemo Jirí Kolár, eccentrica personalità, il cui lavoro rappresenta lungo tutto il ‘900 il limite fin dove si è spinta la ricerca letteraria e artistica nel campo dell’espressione che trascende i mezzi con cui è attuata. Dalla militanza poetica e letteraria, vissuta nel gruppo Skupina 42 nella Praga degli anni Quaranta, i suoi testi poetici, politici e letterari già mostrano quella tensione al valicamento della semplice forma linguistica, resa soprattutto dal suo interesse per la musica contemporanea là dove in essa avveniva la distruzione della parola come per Rimbaud, Mallarmè, Majakowski e Tzara.



Nell’esposizione proposta pare evidente come questo “funambolo della scrittura” abbia optato per una poesia evidente, come cioè sia approdato alla scelta del coniugamento tra qualità poetica e varie forme di visualizzazione che sono riassumibili in una parola: collage. Che sia ereditato dai dada che dai surrealisti, la tecnica dell’assemblage-collage è stata adottata da Kolár dalla vista del Museo di Aushwitz nel 1949, dove gli oggetti sparsi, occhiali, scarpe, libri, indumenti, apparsero all’artista uniti nel destino comune, che li legava più che un legame fisico. Ecco allora che la creazione di una tecnica come quella dell’accostamento mentale favorita dal collage diventa la risposta a ogni esigenza espressiva. Partendo dall’incollare pezzi di immagini uno accanto all’altro, Jirí Kolár elabora diverse tecniche, alcune delle quali prendono nome proprio dalla sua definizione: i confrontages e i rapportages, sostituzione della parola con immagini.



Colpisce soprattutto la tecnica del rolage, un ritaglio a strisce parallele di due immagini incollate in alternanza, con cui è realizzato Hommage aux vedettes de cinema ed Un temple qui navigue, nonché l’ipnotico Hommage a Mademoiselle Riveire. A questa modalità di frammentazione dell’immagine, Kolár ne accosta un’altra, quella dell’intercalage: compenetrazioni (o sovrapposizioni) in cui frammenti di dipinti sono inseriti in ali di farfalle, per cui si può intuire un Manet o un Van Gogh. Le temps de la metamorphose esposto lascia infatti intravedere, attraverso le ali delle farfalle, un Renoir. L’opera esposta più rappresentativa dell’artista è certamente Gemineaux, un collage e chismage su legno ritagliato, pratica tra le più frequenti, che consiste nel ritaglio e nell’applicazione di milioni di frammenti di immagini, testi in caratteri latini, ebraici, greci, cinesi che compongono la figura finale.



Con l’approccio all’arte rappresentato dalle opere esposte, risulta evidente come Jirí Kolár non voglia distruggere il significato dell’immagine, ma tramite la frammentazione di essa voglia renderne la vera essenza, voglia inviare a quel significato ultimo cui ogni pezzetto del materiale usato rimanda, solo per il fatto che vi si riferisce dal momento della sua creazione. Come suggerisce il poeta Angelo Maria Ripellino: “Tanta frammentarietà non impedisce che l’opera intera di Kolár abbia poi una dannata coerenza (…) visualismo e letteratura in lui collimano nei tempi e nelle risorse”.

(Caterina Gatti)