Alle 18 circa di ieri, 2 maggio 2011, i cancelli della basilica di san Pietro sono stati chiusi, e quel giro di chiave ha chiuso, di fatto, il triduo di celebrazioni per la beatificazione di papa Wojtyla. La lunga fila non si era ancora esaurita, molti fedeli sono rimasti fuori, forse un po’ delusi ma non ci sono state proteste. Quelli che oggi sono ancora a Roma potranno dire una preghiera di fronte al nuovo definitivo sepolcro di Giovanni Paolo II, allestito  nella cappella di San Sebastiano, la seconda sulla destra entrando nella basilica vaticana, subito dopo la Pietà di Michelangelo.



Tutti, anche i più lontani dalla Chiesa, sono rimasti stupiti della compostezza del popolo dei fedeli che ha invaso la città eterna. Hanno condiviso senza un lamento la stanchezza del lungo viaggio. Hanno sopportato, senza isterismi che in altre situazioni sarebbero facilmente esplose in contestazioni, le pecche della macchina organizzativa: pochissimi maxi schermi piazzati non solo nell’area intorno a san Pietro ma persino in via della Conciliazione. Non si sono messi a disquisire, infine, eppure volendo ci sarebbe stata materia, sul gusto estetico di chi ha scelto quei poster che coprivano inutilmente, sul lato destro, il colonnato più bello del mondo.



Ha colpito la compostezza ma anche la contentezza non sguaiata, la commozione sincera, il modo in cui la gente ha seguito i momenti liturgici della cerimonia. I polacchi, certo, più numerosi e ammirevoli: si inginocchiavano sul selciato al momento della consacrazione, applaudivano quando c’era da applaudire, pregavano quando c’era da pregare. Ma quanti volti e quante storie restano in mente a chi, come me, per ‘mestiere’ ha dovuto  raccontare la cronaca di queste giornate: latinoamericani, africani, filippini, indiani e… italiani, naturalmente. Che belle facce, quanta semplicità, quanta sorprendente fede. Sono stati loro, il popolo dei devoti, i primi protagonisti di questa beatificazione.



 

Il frutto più reale, quindi la conferma più convincente che la Chiesa non stava sbagliando nel conferire l’aureola a Giovanni Paolo II. La certezza che dunque, oltre il clamore mediatico, oltre la superficialità talvolta stomachevole di tante letture e rievocazioni televisive, il papa venuto da lontano ha lasciato davvero un seme buono nella terra così arida e brulla dell’umanità del nostro tempo. La nostra umanità.

Non era un popolo di militanti, era un popolo di semplici fedeli. Anche la vecchia dialettica tra movimenti e associazioni mai è apparsa così vecchia e logora. Un popolo fatto di persone, senza etichette sulla fronte, ciascuno con la propria sensibilità, con il proprio temperamento, unite dalla stessa fede in Gesù Cristo e dalla medesima attrattiva.

C’è stato poi un altro protagonista di queste giornate, papa Benedetto. La sua umiltà. Si è fatto piccolo, fin quasi a scomparire, di fronte al suo predecessore. Nella sua prima intervista da papa, nel 2005, alla tv polacca confidò: “Quando l’ho visto pregare ho capito, anzi ho visto, che era un uomo di Dio”. Capire e vedere, meraviglioso quell’inciso: si capisce quando si vede… Una volta, pensando all’enfasi mediatica sul papa dei grandi gesti, il papa super star, Giovanni Paolo II commentò con gli amici più fidati: “cercano di capirmi dall’esterno, ma io posso essere capito solo dall’interno”.

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