Hanno quasi 2.000 anni, ma il loro fascino è intatto e riservano ancora tante sorprese. L’ultimo esempio risale appena a un anno fa, quando hanno fatto il giro del mondo le immagini delle più antiche icone conosciute degli apostoli Paolo, Pietro, Andrea e Giovanni, venute alla luce nella catacomba di santa Tecla, vicino alla Basilica di san Paolo Fuori le mura. Una importante scoperta dovuta al grande e spesso nascosto lavoro degli archeologi del Papa, da cui dipende ogni indagine e restauro della Roma sotterranea cristiana: 150 chilometri di cunicoli e ipogei, tale è l’estensione delle 70 catacombe romane, i cimiteri sotterranei dei cristiani dal secondo al quinto secolo.
Solo cinque siti sono oggi aperti al pubblico (san Callisto, san Sebastiano, sant’Agnese, santa Priscilla e santa Domitilla), ma l’attività di conservazione e restauro continua anche in tanti altri e meno noti cantieri. Senza una mappa sotterranea, è impossibile individuarli, perchè si nascondono anche nelle fondamenta di normali palazzi, addirittura nei giardini di case private. L’ingresso della catacomba di santa Tecla, per esempio, è una semplice porta all’interno di un edificio di una banca, difficile immaginare la vastità di memoria cristiana – tra cunicoli e pitture – conservata lì sotto.
Nelle fondamenta di un garage di proprietà di una grande e nota azienda italiana tra via Manzoni e via Luzzati – a pochi passi da san Giovanni in Laterano – è celato un altro affascinante sito, che farà presto riparlare di sè: è l’ipogeo degli Aureli, un complesso funerario della prima metà del III secolo, che per la qualità, la tipologia e la vastità degli affreschi rimane un sito ancora molto controverso. Fino ad oggi, perchè gli archeologi del Papa lo hanno appena restaurato e, grazie all’uso di sofisticate tecnologie, sapremo qualcosa in più di questo prezioso monumento che documenta in modo unico il passaggio al linguaggio cristiano dell’arte funeraria romana.
“Ogni anno decidiamo cinque o sei interventi significativi – spiega monsignor Giovanni Carrù, Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che sovraintende a tutte le catacombe sul territorio italiano – Il criterio è l’urgenza dei lavori, lo scopo la conservazione decorosa di tutte le catacombe, anche quelle non aperte al pubblico.”
Negli ultimi anni l’attenzione e le risorse sono rivolte, in particolare, all’enorme patrimonio pittorico dei luoghi della memoria dei primi martiri cristiani: autentici archivi della Chiesa primitiva, che documentano gli usi e i costumi, i riti e la dottrina cristiana, come era praticata e insegnata allora.
“Nelle catacombe vediamo letteralmente come vivevano i cristiani, quali mestieri facevano: c’è l’esorcista, l’incaricato dell’Eucarestia… – prosegue monsignor Carrù – mi ha sempre colpito come rappresentino un suggestivo e semplice percorso di catechesi, perchè dalle immagini di Abramo, Mosè e Giona si arriva a quelle del Nuovo Testamento, con i miracoli di Gesù”.
È un’arte molto immediata, nella sua parte narrativa e nella sua parte simbolica: il pesce, simbolo del Cristo; l’ancora, immagine della speranza; la colomba, rappresentazione dell’anima credente e, accanto ai nomi, sui sepolcri, frequentissimo l’augurio “In Cristo”.
Da qui l’idea di investire sulle catacombe come grande opportunità di una nuova evangelizzazione, aiutata dalla rinnovata attrattiva per l’archeologia dei nostri tempi. Un esempio su tutti: più di 2.700 visitatori al giorno scendono nelle catacombe di san Callisto, il più antico e suggestivo cimitero ufficiale della comunità cristiana a Roma. Prende il nome dal diacono Callisto che fu preposto all’amministrazione del cimitero e che, divenuto Papa nel 217, lo ingrandì notevolmente. All’interno della catacomba furono deposti, soprattutto nella Cripta dei Papi, la maggior parte dei pontefici romani tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Inciso su una lastra di marmo, un commovente carme, scritto da Papa Damaso che ricorda tutti i martiri qui sepolti. Intorno alle loro tombe si sviluppò, ben presto, da un lato una forma di culto da parte dei pellegrini che lasciavano i loro graffiti e le loro preghiere, dall’altro la corsa a conquistare una sepoltura il più vicino possibile alle tombe dei martiri, nella speranza di stabilire anche in Paradiso la stessa vicinanza.
“Visitare le catacombe ti obbliga a pensare all’aldilà, a porti le domande fondamentali, chi sono, da dove vengo e dove vado – conclude monsignor Carrù – ma sopratutto, come ha detto Giovanni Paolo II, nel silenzio delle catacombe possiamo ritrovare o ravvivare la nostra identità religiosa in un itinerario spirituale che, muovendo dalle prime testimonianze della fede, ci conduce fino alle ragioni e alle esigenze della nuova evangelizzazione”.