«La storia del locale inizia nel 1870, quando era un’osteria senza neanche una  cucina in cui venivano serviti formaggi, carne secca, olive e piatti molto semplici. Si trattava della tradizione di quell’epoca dei cosiddetti “fagottari”, che da casa si portavano appunto il fagotto con la cena e a cui si offriva un tavolo e qualcosa da bere. È iniziata così, cinque generazioni fa, con i nostri tris nonni, Lorenzo e Clorinda». Adesso lo storico ristorante “Checchino dal 1887”, in via di Monte Testaccio a Roma, continua a servire i piatti tipici della tradizione romana grazie a Francesco Mariani, intervistato da IlSussidiario.net e i suoi due fratelli, Marina e Elio. «Nel 1887 il ristorante ha ottenuto la licenza di osteria con cucina, mentre qui di fronte fervevano i preparativi per l’inaugurazione del Mattatoio che avvenne fra il 1890 e il 1891. Da quel momento il Mattatoio influì molto sulla nostra cucina, con la creazione della cosiddetta “cucina del quinto quarto”».



Di cosa si tratta?

La testa, la coda, le zampe e le interiora degli animali, chiamati “quinto quarto” perché il loro peso corrispondeva a uno degli altri quattro quarti più nobili. A quell’epoca ancora non erano presi in considerazione dalle famiglie più ricche e quindi venivano dati come aggiuntivo di paga ai “vaccinari”, gli uomini di fatica del Mattatoio, detti anche gli “scortichini”, che scuoiavano l’animale e lo trasportavano dopo averlo diviso in varie parti. Da lì proviene anche il nome della “coda alla maniera dei vaccinari” che, avendo il quinto quarto oltre a poco denaro, lo portavano a cucinare nelle trattorie di fronte al Mattatoio, tra cui quella della mia famiglia.
Dopo Lorenzo e Clorinda, i fondatori, arriva la figlia Ferminia, la creatrice della ricetta della coda “alla vaccinara” ancora come la conosciamo oggi. Lei ebbe due figli e uno era Francesco, detto “Checchino”, che continuò la gestione. Poi arrivarono i miei genitori e subito dopo io, mio fratello e mia sorella.



Come mai il ristorante ha ricevuto la denominazione di Bottega Storica dal Comune di Roma?

Perché è scavato dentro la collina di Monte Testaccio, il cosiddetto “Monte dei Cocci”, appunto perché costituito interamente da pezzi di anfore scaricate qui dal 75 a.C. al 456 d.C. È la collina che ha dato il nome al quartiere, dal latino “testa”, che significa appunto vaso, anfora. Da lì il “testaceum”, cioè il luogo fatto di terracotta, volgarizzato poi in dialetto popolare romanesco in Testaccio. Siamo anche sotto il vincolo della Sovrintendenza dei Beni Archeologici proprio perché siamo in una proprietà che è considerata monumento storico nazionale.



In che modo avete rivisitato la cucina romana?

Sono trascorsi oltre 120 anni, ma noi continuiamo a proporre la cucina romana di questo quartiere, anche se il Mattatoio ha chiuso i battenti nel 1976. Abbiamo valorizzato una cucina prima considerata povera, come quella del quinto quarto, perché la materia prima veniva spesso venduta a costo zero o a cifre molto basse. Oggi le cose sono cambiate e il costo di qualsiasi prodotto o servizio è nettamente aumentato: basti pensare che per la coda, che ha una lavorazione di cinque o sei ore, ci vogliono persone specializzate che seguano le fasi di tutta la preparazione.  Questo fa sì che questa cucina, da povera sia diventata ricca. Anche sotto il profilo della rarità, bisogna considerare che la coda dell’animale è una sola e dal punto di vista del rendimento della carne è decisamente inferiore per esempio al filetto che, malgrado sia un taglio più nobile, è di per sé molto meno costoso perché non richiede lavorazioni particolari se non quella del taglio. La coda, oltre tutte le preparazioni manuali, come il taglio e lo sgrassaggio, richiede una lunghissima lavorazione.

Come riuscite a valorizzare nella maniera adeguata questa cucina?

Siamo una famiglia di osti con la concezione che “tutto parte dal vino”, e abbiamo anche deciso di specializzarci in questo campo: io e mio fratello siamo sommelier professionisti e abbiamo abbinato la tipica cucina di Testaccio con vini provenienti da tutta Italia e da tutte le parti del mondo. La cucina romana è sempre stata caratterizzata da sapori molto forti e, anche se noi abbiamo cercato di alleggerirla e di renderla più “digeribile”, il gusto resta sempre lo stesso, grazie alle materie prime di base.

Come ha visto cambiare Roma nel corso degli anni?

Se parlo di Roma mi viene spontaneo parlare di Testaccio. Il quartiere prima era caratterizzato dalla presenza del Mattatoio i cui spazi dopo la chiusura sono stati trasformati nella facoltà di Architettura, nel Macro, il museo di arte contemporanea, in un centro anziani e nei mercati equo e solidali. Quindi l’aspetto del quartiere è cambiato completamente e ora è famoso anche per essere uno dei centri della movida romana, con locali che, vista l’assenza di abitazioni nelle vicinanze, possono tenere il volume della musica più alto. Oltre al territorio, però, è cambiata tanto anche la cultura del mangiare dei romani.

In che senso?

A Roma, come in tutte le grandi città europee, è cambiato lo stile di vita dei cittadini, sempre più frenetico e stressante: mentre prima la cucina era espressione di un particolare luogo, di un quartiere, oggi questo non esiste più e Roma ha perso questo legame con le sue tradizioni popolari. Una proposta come la nostra, che non sia allontana mai dalla tradizione romana, rimane valida solo per un fatto di curiosità del turista o del visitatore che decide di concedersi un tuffo nella vera cucina della capitale del passato.

Come avete affrontato la crisi economica?

La qualità del ristorante è sempre la stessa che ci accompagna da tantissimi anni, però abbiamo scelto di diminuire la quantità, quindi se prima ordinavamo un certo numero di bottiglie di ogni tipo di vino, ora ne acquistiamo di meno, mantenendo però la stessa scelta di prima. Ora serviamo anche il vino al bicchiere, conservato sotto azoto in macchine che lo mantengono a una adeguata temperatura. Un servizio sempre molto professionale che però può far risparmiare qualcosa, sia a noi che al cliente, che non è costretto a dover acquistare un’intera bottiglia. Una grande attenzione quindi alle spese, agli sprechi e alle giacenze inutili che ci hanno anche permesso di poter conservare il posto dei nostri dipendenti e di poter continuare a gestire questa fantastica attività più che centenaria.

(Claudio Perlini)

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