La casa museo di Alberto Moravia sono due lunghi corridoi lungo i quali si aprono stanze ampie e luminose. Alti scaffali colmi di libri percorrono tutte le pareti e tutto trasuda della presenza dell’autore, tanto che ci si aspetterebbe di veder uscire Moravia stesso in vestaglia da un momento all’altro dalla cucina o dal bagno. Nel salotto dell’autore che ha creato il romanzo italiano novecentesco, si è sovrastati dall’imponente ritratto firmato Guttuso (1982).



Cercare di capire quale sia il rapporto di uno scrittore con la sua città è sempre un’impresa che si fa tanto più ardua in questo caso, dove l’autore è Alberto Moravia e la città è Roma. Raffaele Manica, moravista e docente di letteratura italiana presso l’università Tor Vergata, afferma che «Roma è una presenza costante nell’autore nei dettagli, ma è una città sostanzialmente fantasma, un luogo immaginario, sempre presente e mai nominata se non per sineddoche. A Roma Moravia si ispira, ma non la fa mai vedere. Nemmeno in Racconti romani, dove sbaglia apposta la toponomastica. Questa è la sua Roma: lui guarda i quartieri poveri, ma è solo uno sguardo, non è vita come invece lo è per Pasolini. Per la biografia di Moravia, è un’altra cosa. Questo appartamento, con la vista sul Tevere per esempio è l’ultimo posto dove Moravia ha vissuto, e ricalca quello dove è nato».



Quindi la Roma di Moravia è più la Roma vissuta con approccio belliano, disincantato, biografico e senza censura, o l’idea di Roma cui Moravia “semplicemente” partecipa, la città eterna?

«Roma percepita è utilizzata come un grande teatro, che risente di tradizioni per come queste sono entrate nelle abitudini. Come in Fellini, Roma è un peso per come è diventata: desacralizzata, laica, materialista, rozza. Quindi nella ricerca di un luogo dove ambientare i romanzi, solo certi quartieri borghesi, i suoi, erano il luogo dove poter riprodurre il teatro immaginato. Per poter scrivere di Roma, Moravia deve andare via (tant’è che Gli indifferenti, primo romanzo, sono stati scritti nel periodo di cura a Bressanone). Uno dei motivi per non andare via può essere la paura dell’oblio della città non solo fisico ma soprattutto psichico, cioè dimenticare il luogo di appartenenza».



«La Roma delle ambizioni sbagliate è però nell’ autore eternamente autunnale, e non appena l’autore vi si allontana, diventano tutte improvvisamente ambientazioni estive. Roma è traumatica, ma ogni volta che se ne va è un evento drammatico proprio perché riesce a vedere la sua città com’è davvero. Così la pioggia che cade non purifica nulla, ma inquina e riempie di sozzura. Le bandiere a lutto in Piazza Venezia de La ciociara mostrano la capacità di osservazione sempre partendo da un particolare preciso. C’è uno sguardo eccentrico sulla città, lo sguardo di Cesira, ma più in generale lo sguardo della ciociarìa, lontano, straniato. Nonostante questo Roma è un posto in cui si ritorna: tutti gli allontanamenti da Roma sono poi un ritorno».

L’immagine della città è quindi conflittuale. Roma è il posto dove Moravia riconosce sé stesso e si riesce a specchiare, ma che poi ha bisogno di allontanare da sé per poterlo descrivere. Perché non c’è gloria, è una Roma immersa nella sua contemporaneità e nei fatti che succedono. Moravia infatti vede come testimoni diversi episodi significativi del Novecento che hanno origine proprio nella Capitale.

«Le quattro Rome di Moravia (cronologicamente: D’Annunziana, fascista, la Roma dei Racconti romani fino a La noia, Roma riscoperta) sono i quattro momenti dell’opera e contemporaneamente i quattro momenti dell’edificazione della città. La prima Roma è una città che è stata raccontata a Moravia da Il piacere, quindi resta per stralci come uno scenario teatrale. Ma la Roma D’Annunziana è la Roma del padre, e in un certo senso Moravia la odia perché non è sua. Quella di D’Annunzio infatti è una città svenata, stanca, ad alta densità emotiva, mentre per Moravia deve essere senza risonanza emotiva perché è solamente uno scenario. La seconda è una Roma impiegatizia, burocratica: uno scenario dell’anima che Moravia vedeva riflessa sia nelle facce delle persone che nei palazzi. Il suo è un rapporto irrisolto con la fisicità delle case che rispecchia il rapporto con lo sguardo sull’umano. Negli anni Cinquanta c’è poi una Roma curiosa, periferica, che Moravia non ha percepito direttamente come l’amico Pasolini, ma con l’approccio di un sociologo e studioso di fenomeni umani, nel grado con cui la Roma periferica interferisce con la Roma borghese. Nei romanzi di Moravia non c’è assolutamente la Roma storica! Nell’ultima Roma infine, quella dopo La noia (anni ’60), la chiave sessuale diventa un meccanismo esibito del decadimento interiore, riflesso del decadimento della vita politica: sono infatti gli anni del ’68 e delle Brigate Rosse».

Il ritratto che rimane di Moravia dopo questa conversazione è di un personaggio ancora profondamente attuale e vivo, tra le pareti della sua casa ma soprattutto tra le strade della sua città. Come l’autore fa dire ad Adriana ne La romana, “una vita ne vale un’altra”, perché l’importante è il concetto di replicabilità: la cosa importante è la scoperta che sta dietro le cose e non il fatto in sé. In questo senso l’eterno ritorno che l’autore fa nella sua città sia nella vita che nelle opere è segno dell’appartenenza profonda a luoghi precisi in cui Moravia in vita ritrovava se stesso, ed adesso rimane impresso facendo memoria di sé.

(Caterina Gatti)