All’inizio erano parse solo scaramucce verbali, poco più che malumori. Perché era cominciata proprio così, con le puntualizzazioni e i no, sempre più decisi, al trasferimento dei ministeri da Roma al Nord, proposto dal ministro Calderoli. Un copione scontato, si sarebbe detto. Poi, dai mal di pancia, si è passati alle differenziazioni, sempre più palesi. Con il sindaco Alemanno prima e la governatrice Polverini poi a votare quei referendum che il premier Berlusconi aveva chiesto apertamente di boicottare. E infine – in vista del raduno di Pontida – quello che i commentatori avevano già ribattezzato il “partito romano” è stato sdoganato direttamente dal sindaco di Roma. Con queste parole: se la Lega “tornerà alla carica con nuove provocazioni contro la Capitale, reagiremo duramente”. Parole dove, non a caso, il sindaco Alemanno usa il plurale: «Non è solo la Lega che può porre condizioni, ma c`è anche un partito romano e una realtà laziale che può fare altrettanto».



Il partito di Roma e quello del Nord, il partito della Padania e quello della Capitale e del Lazio. Non è solo una boutade. Non è solo un comodo asse istituzionale tra il sindaco e la governatrice. Non è solo l’inizio della battaglia con la Lega. E’ innanzitutto la certificazione dello spacchettamento del Pdl, dove ormai ci si muove tutti in ordine sparso. Come Miccichè, che con i suoi parlamentari di Forza del Sud ha già traslocato e non esclude neppure alleanze in chiave meridionalista con il Pd, si muovono anche gli altri. Tutti attendono il Consiglio nazionale di luglio, che incorenerà ufficialmente Angelino Alfano segretario del partito. E intanto ognuno cerca di guadagnare posizioni: conquistare nuovi spazi, indipendenti dal premier, è diventata una priorità. Per avere una posizione migliore nel caso di riequilibrio delle componenti. Alemanno e la Polverini, insomma, non fanno eccezione. Anche se in qualche modo lascia sorpresi il rilancio di quel “partito di Roma” di cui si discusse abbondantemente negli anni ’80, quando vennero rispolverati slogan tipo “Roma ai romani”, e che affonda le sue radici in una cultura  molto vicina a quella dei vecchi liberali. Di sicuro sembrano ormai lontane anni luce le immagini del 6 ottobre dello scorso anno, di quello che venne definito il “patto della pajata”, quando Umberto Bossi e Gianni Alemanno si ritrovarono in piazza Montecitorio, a Roma, per un “pranzo della pace” a base di polenta, coda alla vaccinara, trippa, cicoria e vino dei Castelli. 



Un Partito romano, dunque. Ma de che?, direbbero da queste parti. I contenuti non sono ancora chiari. Per adesso, più che di teoria politica, si discute di pratica. Di cose da fare. Ministeri e pedaggi sono le due parole d’ordine che nelle prossime settimane diventeranno il cavallo di battaglia del Partito romano, cioè dell’asse Alemanno-Polverini. Tra pochi giorni il pezzo di Pdl vicino al sindaco di Roma dovrebbe presentare in Parlamento un provvedimento per bocciare il trasferimento dei ministeri al Nord e l’introduzione dei pedaggi sul Grande raccordo anulare. E alla raccolta di firme, lanciata dal ministro Calderoli e partita proprio all’annuale raduno di Pontida, la governatrice Renata Polverini ha replicato così:  “Se la Lega chiama il popolo ad esprimersi, anche noi abbiamo il dovere di farlo attraverso una petizione popolare e raccogliendo le firme per dire di mantenere i ministeri a Roma”.



Non sarà così semplice. Il braccio di ferro è inevitabile perché la Lega ha già detto che non ha intenzione di indietreggiare un millimetro sul «trasloco» dei dicasteri. Ma ci si interroga anche sul se e sul come le tante anime della coalizione potranno continuare a convivere. La storia italiana insegna che solo un partito con una identità forte, ben radicato nel territorio e capace di coraggiose mediazioni può tenere insieme le sue diverse anime e diventare l’artefice del cambiamento. Guardando davvero al bene comune.