Mi è capitato di conoscere un’impresa che, dopo anni di difficoltà economiche, ha di nuovo il portafogli ordini pieno, ma si trova a confrontarsi con banche che non intendono assumersi il rischio di finanziare nuovi investimenti (a dire il vero ho riscontrato atteggiamenti simili anche in casi in cui l’intervento delle garanzie pubbliche dello Stato coprirebbe il 100% del rischio).
Ho visto una piccola impresa familiare meridionale puntare con successo sul web le proprie chances per allargare un mercato fattosi asfittico. Un’azienda di medie dimensioni del Centro Italia è riuscita invece, dopo lunghi mesi di estenuanti contatti e via vai di documenti, a farsi dare il via libera dai servizi della Commissione per un piano di ristrutturazione.
Ho conosciuto poi la storia di un’azienda di piccole dimensioni che, pur avendo sostenuto le spese per la brevettazione di due importanti innovazioni del settore chimico, sviluppate in casa, non ha trovato un sostegno per trasformare quei brevetti in nuovi prodotti industriali. Moltissime micro e piccole aziende, invece, in questi mesi hanno deciso di dare stabilità alle proprie collaborazioni, superando l’ostacolo della mancanza di fiducia reciproca e della naturale concorrenza tra loro, perché hanno compreso che senza una nuova capacità competitiva sui mercati – singolarmente inarrivabile per ognuna di loro – rischiano di scomparire.
Cosa ci dicono tutte queste storie reali d’impresa? Certamente che continuiamo a trovarci in un contesto macroeconomico difficile, in cui i rischi sono tutt’altro che scomparsi e i fattori che hanno creato la crisi finanziaria internazionale ancora presenti: dagli squilibri economici globali, all’eccesso straripante di “finanza ombra” rispetto a quella regolata. Ma ci dicono anche altro.
Innanzitutto c’è un cambio di scenario che riguarda e rimette in gioco le strategie di tutti. Riguarda le imprese in primis, a partire dalle tante aziende che hanno ripreso a investire. Si tratta di quegli imprenditori che, in un contesto competitivo in rapido mutamento, hanno accettato la sfida di rimettere in gioco le proprie aziende, la loro organizzazione, i prodotti, le reti di fornitura, le competenze, le nuove tecnologie per riagganciare la domanda, in gran parte sui mercati esteri, magari quelli più distanti.
Questo “salto” culturale fa selezione tra le imprese: tutte hanno chiare le difficoltà, non tutte ne traggono le conseguenze in termini di nuove strategie e nuovi comportamenti. Ad esempio, sono ancora poche – anche se cominciano a esserci e a far numero – le aziende che si aprono ai capitali esterni, puntando a crescere e vincendo il timore di una perdita del controllo o della necessità di inserimenti manageriali all’esterno. O le aziende che, come dicevamo, accettano di svilupparsi in una logica di aggregazione, facendo rete per mantenere autonomia e assicurarsi quella “taglia minima” che consenta loro di presidiare i mercati e mantenersi competitive (il contratto di rete è in questo senso uno strumento di politica industriale che punta a dare stabilità e orizzonte strategico alle numerose collaborazioni informali che già caratterizzano la vita quotidiana delle nostre aziende).
Lo stesso salto culturale è richiesto ad altri mondi, dal credito alla finanza, dalle professioni alle associazioni di rappresentanza. Prendiamo le banche, per esempio.
Molte, troppe aziende segnalano come tante banche proprio in questa fase stringano i cordoni della borsa, non credendo nei loro progetti, nei loro business plan. E ciò accade paradossalmente più di quanto non sia avvenuto nel picco massimo della crisi, quando la risposta è stata positiva, anche grazie alla rete di sicurezza fornito dal sistema di garanzie pubbliche che Confidi, Regioni e Governo, hanno allestito. È in parte il frutto di un riflesso condizionato che spinge a non prendere nuovi rischi, tanto più in presenza della severità di Basilea 2 e di quella futura, ancora più rigida, di Basilea 3.
Ma ci sono pure istituti di credito che invece stanno investendo per aiutare e accompagnare le imprese ad andare all’estero.
Sono comportamenti diversi che nascono da un diverso approccio di fondo: se accettare le sfide e le opportunità del nuovo contesto, ovvero inseguire le residue sicurezze di un mercato domestico e chiuso.
Questi episodi ci dicono inoltre che deve entrare in gioco un nuovo rapporto tra pubblico e privato nel segno dell’innovazione e dell’internazionalizzazione.
Le condizioni del bilancio pubblico e i vincoli di rientro rendono l’utilizzo degli incentivi uno strumento a esaurimento o comunque in forte riduzione. Ciò impatta sulla necessità delle imprese di poter contare su risorse che finanzino l’innovazione che, specie in certi settori, ha redditività talmente dilazionata da scoraggiare i capitali esclusivamente privati. Ecco allora l’utilità di strumenti di partenariato, come forme di garanzia pubbliche che incoraggino la finanza privata anche laddove non vi siano prospettive di profittabilità a breve termine (i brevetti sono un caso tipico).
Quanto all’internazionalizzazione, che è la via di più sicura crescita anche nel prossimo futuro, c’è sicuramente un’esigenza di riorganizzazione del sistema pubblico di sostegno per contenere i costi e rafforzare la nostra presenza sui mercati con maggiori prospettive. Ma questo oggi non basta. Serve fare rete tra le reti che già ci sono, tutte, non solo quelle pubbliche: oltre le banche, le strutture di consulenza, le fiere, i network specialistici, le istituzioni culturali, la formazione specializzata, i canali e format innovativi per la promozione delle nostre eccellenze.
Infine, anche che la Pubblica Amministrazione tutta, da quella locale a quella europea, è chiamata a un cambio di atteggiamento. In ciò lo Small Business Act indica una direzione chiara.
Tutte le imprese chiedono semplificazione. Disboscare gli adempimenti ridurre i passaggi amministrativi inutili e costosi: non c’è nessuno che non ne dichiari la necessità. Ma in una situazione in cui i livelli di governo e i poteri decisionali sono molteplici, è inutile illudersi che siano obiettivi raggiungibili a breve. Anche la completa telematizzazione nel rapporto tra PA e imprese, che avrebbe effetti di alleggerimento significativo, è resa complicata dalla pluralità dei linguaggi e delle modalità di informatizzazione delle diverse amministrazioni.
E allora, mentre si perseguono questi obiettivi di medio periodo, è indispensabile impegnarsi pragmaticamente per rimuovere uno a uno quei colli di bottiglia burocratici particolarmente negativi per le imprese. una logica di riforme step by step, nell’ambito di una filosofia che, come esemplarmente fa lo Statuto delle imprese, ribalta l’ottica tradizionale con cui la PA guarda all’impresa, ossia che prima di agire bisogna essere autorizzati.