«Mio nonno era un capostazione di Velletri e dopo la guerra alcuni suoi amici commilitoni gli indicarono in questa zona, nel quartiere ebraico, alcune osterie da poter prendere in gestione. Così arrivò qui e cominciò con un locale qui a fianco che ora non esiste più, e successivamente si interessò a questo, di proprietà di un ebreo, che prima del 1922 si chiamava Osteria dell’Artigliere». Claudio Ceccarelli apre a llSussidiario.net le porte del ristorante Giggetto al Portico D’Ottavia e racconta l’incredibile storia del locale nato nel 1923 nel centro storico di Roma. «Mio nonno riuscì poco dopo a comprare il locale e piano piano cominciò ad espandersi, sotto forma di tipica osteria romanesca, dove si giocava per esempio alla “passatella” (tipico gioco da osteria, in cui bisognava non fare bere un partecipante allo scopo di screditarlo o umiliarlo). Ma questo posto ha attraversato diversi momenti, anche meno allegri.
Per esempio?
Venivano le squadracce fasciste a creare spesso e volentieri situazioni poco piacevoli. E il 16 ottobre 1943, durante la deportazione degli ebrei di Roma, da questo posto vennero fatti scappare 46 ebrei attraverso un cunicolo che sta proprio qui, all’interno del ristorante. Noi non siamo di religione ebraica ma siamo qui dal 1922 e ci siamo sempre comportati in maniera corretta e amichevole con il quartiere, che rispetto a oggi era molto più vissuto dalla comunità ebraica, quindi abbiamo fin dall’inizio creato un ottimo rapporto di amicizia e rispetto.
Come è cambiato nel corso del tempo?
Mia nonna è sempre stata una brava cuoca di Velletri, e quando è arrivata qui le anziane del posto le hanno insegnato tutto ciò che c’era da sapere della cucina ebraico-romana, come gli aliciotti con l’indivia, le triglie pasticciate e il carciofo alla giudia di cui noi siamo i più antichi rappresentanti. Se dovesse arrivare un solo carciofo buono a Roma, quello ce l’abbiamo noi.
Poi il locale è passato nelle mani di suo padre…
Sì, che è riuscito a comprare dai palazzi limitrofi altre sale, potendo così allargare il locale che, da osteria con cucina è diventato un vero e proprio ristorante. L’unica cosa che qui non è cambiata è la cucina.
Senza mai rivisitare i piatti della tradizione?
Noi romani abbiamo un grande vantaggio, quello di non avere la “nouvelle cousine”: non siamo come quegli chef che devono sempre inventare nuovi piatti o combinazioni di cibo particolari. La nostra grande forza è quella di poter far proseguire la grande tradizione della cucina romana.
Che ha bisogno delle migliori materie prime…
Siamo sempre alla ricerca del prodotto di qualità come quello di un tempo, come la trippa che deve essere il più cruda possibile per poterla cucinare per più ore. Cerchiamo di ottenere la stessa cucina di un tempo per mantenere sempre gli stessi gusti e sapori.
Mi parli della storica cantina del locale
Il ristorante confina con il Teatro Marcello e i basamenti delle colonne arrivano fin sotto il livello stradale, perciò quello che per noi adesso è la cantina, prima era il piano terra. Inoltre questo ambiente che si è creato, dove ora conserviamo il vino, fornisce una temperatura costante intorno ai 16-17 gradi per tutto l’anno, che è perfetta per le bottiglie.
Come si è evoluto il connubio tra la cucina romana e quella ebraica?
L’influenza mediorientale nella cucina romana c’è sempre stata, come i pinoli, l’uva passa, le varie spezie e questi sapori agrodolci. Anche non sapendolo, le nostre nonne cucinano piatti della tradizione che già hanno ricevuto questa influenza ebraica che, con i prodotti tipici del Lazio, si è trasformata e si è evoluta nel tempo, diventando un’ottima cucina, molto saporita.
Come ha visto cambiare nel tempo i cittadini romani?
Abbiamo una clientela molto varia, dal romano più verace di Trastevere e Testaccio all’imprenditore, fino al personaggio famoso. Il nostro vantaggio è che, facendo una cucina genuina e mantenendola nel tempo, i nonni e poi i padri portano i propri figli ad assaggiare i tipici piatti romani. Un giorno quei figli, a cui noi teniamo tantissimo, porteranno avanti questa tradizione e andrà avanti così di generazione in generazione. Spesso vengono a pranzare delle persone adulte che abbiamo visto crescere e che venivano qui con i nonni la domenica. La tradizione continua, per loro e per noi.
E i turisti?
I turisti purtroppo si abituano alla cucina italiana che hanno nel loro paese e quando vengono qui si aspettano lo stesso tipo di piatti. Per esempio, in molti ordinano i saltimbocca alla romana e, dopo averli serviti, mi chiedono: “E dove sono gli spaghetti?”, perché abituati a mangiare un piatto unico con primo, secondo e contorno, tutto insieme.
Personaggi celebri che si sono seduti a questi tavoli?
Mio zio, quando lavorava qui come cameriere durante la guerra, serviva Herbert Kappler (ufficiale tedesco delle SS), ma venivano anche vari gerarchi fascisti che spesso facevano più danni che altro. Parlando invece di tempi più recenti, abbiamo visto tra i tanti Nino Manfredi, Alberto Sordi, Celentano e molti continuano ancora a venire, come l’attore Tony Musante, ieri a pranzo. Ma per noi le celebrità sono clienti come tutti gli altri, e questo perché qui si può ancora respirare quell’aria, quel calore familiare che solo i romani riescono a trasmettere.
(Claudio Perlini)