«Potremmo dire che le Acli rappresentano una sorta di “ecosistema” che, solo a Roma, conta 40.000 iscritti e comprende una miriade di associazioni sportive, circoli, federazione anziani e pensionati, fino ad arrivare ai patronati e ai Caf, che l’hanno fatta conoscere in tutta Italia». Cristian Carrara ha una “doppia vita”, come confida a IlSussidiario.net. E’ un musicista, un compositore, ma da qualche mese ricopre anche il ruolo di Presidente delle Acli di Roma e di direttore generale della Fondazione Bene Comune. «Ho sempre mantenuto un legame stretto con il mondo associativo e sociale. Sono entrato da giovanissimo nelle Acli di Pordenone, la mia città, diventando poi Segretario nazionale del Movimento Giovanile delle Acli. Questo di fatto mi ha portato a Roma, dove ho fondato il Forum Nazionale Giovani, l’unica piattaforma di rappresentanza degli under 35 riconosciuta per legge. Poi la Presidenza dell’Acli, una rete associativa che incontra ogni anno circa 250.000 persone».
In che modo principalmente?
Ad esempio accogliendo gli immigrati della città, a cui insegniamo l’italiano, a scrivere un curriculum o a come può nascere un’attività imprenditoriale. Oppure offrendo consulenze gratuite nei Punti Famiglia, un’attività che finanziamo completamente attraverso i fondi del 5 per mille.
Tutti questi servizi alla collettività sono adeguatamente riconosciuti dal pubblico secondo lei?
Devo dire che si fa ancora molta fatica a far capire alle istituzioni il nostro valore aggiunto e i risultati che porta. Se da un lato, infatti, il principio di sussidiarietà sul piano teorico è stato ormai sdoganato, nella pratica la strada sembra ancora lunga. Un esempio? Il patronato è il classico caso in cui la sussidiarietà è stata intesa “al contrario”: il sociale arriva dove lo Stato non può arrivare. E così sono finanziati proprio perché lo Stato sa che non potrebbe arrivare così in profondità nel contatto con i cittadini. Un rapporto virtuoso tra pubblico e società civile comunque dovrebbe essere tutt’altra cosa.
Ma, grazie al radicamento che le Acli hanno nella Capitale, quali sono i bisogni e le problematiche che registrate in città?
Ci sono bisogni sociali e urgenze che, a mio avviso, toccano tutto l’arco generazionale. Per prima cosa i giovani e l’inserimento nel mondo del lavoro. Occorrerebbero politiche che mettano in moto quel meccanismo di auto-imprenditorialità giovanile che in questo momento ha bisogno di una spinta. Non parlo di assistenzialismo, ma di promozione della creatività e delle idee dei giovani.
Il secondo grande bisogno è quello delle giovani famiglie: c’è una larga fascia di “povertà silenziosa” che coinvolge moltissime coppie che, ad esempio, non hanno il coraggio di andare alla mensa della Caritas. D’altra parte il mercato degli affitti è fuori controllo e creare reti sociali di welfare familiare è molto difficile in una città come Roma. Di conseguenza il rischio solitudine è altissimo.
Poi vengono gli anziani.
Esatto. Spesso vivono da soli o in condizioni di difficoltà. Per loro abbiamo realizzato il progetto “Pronto Nonno”. Nei mesi più caldi dell’estate, una serie di volontari saranno a disposizione e potranno essere chiamati per aiutare gli anziani, nelle piccole e grandi cose.
Da ultimo, l’immigrazione. A Roma alcuni vengono per aprire un’attività, altri per nascondersi. Bisogna lavorare a politiche che mirino alla vera integrazione, quella che parte dalla conoscenza della lingua, della legge italiana, di come mettere su un’impresa e come gestirla, un cammino che può portare a una propria autonomia, anche lavorativa.
Sempre a proposito di termini inflazionati, qual è la vostra idea di “bene comune” mentre portate avanti le vostre opere?
Devo dire che, lavorando con la fondazione Bene Comune, è stato possibile notare un’incredibile generalizzazione di questo termine, ormai entrato a far parte del vocabolario della politica italiana.
In realtà proviene dalla tradizione cristiana e si differenzia sia da “bene pubblico” che da “bene statale”. Spesso, sia a destra che a sinistra, si alimenta questa confusione, come si è visto nella recente tornata referendaria.
Ad ogni modo, il bene comune è “il bene di tutti”, ma non è detto che a realizzarlo sia per forza il pubblico. Può benissimo provare a realizzarlo anche l’iniziativa privata.
Insomma, oltre al lavoro pratico, sembra che ci sia anche un grosso lavoro “culturale” da fare.
Certamente. E credo che in questo la bellezza giochi un ruolo molto importante. Come ci ha insegnato Padre Florenskij: l’uomo santo non fa solo cose buone. L’uomo santo fa innanzitutto cose belle, capaci di trasmettere luce, per dare a chi le guarda uno sguardo diverso sul mondo.