«La periferia romana “nasce” negli anni Cinquanta grazie ad alcuni romanzi e all’“Accattone” di Pasolini. Prima non aveva storia, né voce. Oggi la situazione è cambiata e le borgate pasoliniane sono diventate quasi tutte dei veri e propri quartieri più o meno integrati. Il passaggio tra centro e periferia è meno violento, meno forte. Sono collegate con il centro della città e sono spesso facilmente raggiungibili con una corsa in autobus». Lo scrittore Andrea Carraro, intervistato da IlSussidiario.net, è l’autore di importanti libri come L’erba cattiva e Il branco, da cui poi è stato tratto l’omonimo film diretto da Marco Risi. Parliamo con lui della periferia di Roma, fatta di luoghi spesso abbandonati, isolati e fuori dalla realtà del centro, su cui Carraro ha sempre orientato i suoi racconti e i suoi reportage. Il suo ultimo lavoro, Da Roma a Roma. Viaggio nella periferia della capitale, è proprio una raccolta di questi reportage narrativi: «Il titolo è vagamente ironico – ci spiega Carraro – e volevo suggerire l’idea di un viaggio circolare, che parte da Roma e ritorna a Roma, anche per sottolineare la mia stanzialità, perché non sono un gran viaggiatore. Trovo l’ispirazione immediatamente fuori casa, senza la necessità di andare in chissà quale posto esotico per raccontare il bene o soprattutto il male degli uomini». Continua poi a raccontare di Pasolini e di come la periferia sia cambiata: «Pasolini non era romano ma veniva dal Friuli. Scese a Roma negli Anni Cinquanta cominciando a frequentare tante realtà periferiche dell’epoca. Scriveva i suoi romanzi su queste borgate con un linguaggio che può sembrare inventato, ma che in realtà veniva davvero usato nelle borgate della sua epoca, in cui era presente però una particolare carica espressiva. Da allora la situazione è profondamente mutata: venti anni fa, quando dovevo scrivere Il branco, andavo in giro con il registratore per cogliere tutte le sfumature espressive e dialettali, che però già non erano più come quelle di Pasolini, si erano “imbastardite” ulteriormente. Il linguaggio era molto meno espressivo e molto più afasico».
Quali sono stati i cambiamenti principali della periferia romana?
La fascia periferica che circonda Roma si è oggi allargata, lasciando tracce anche a distanza di trenta, quaranta chilometri, come Torvajanica, Ostia, ma anche Guidonia e Marcellina. Si è omologato in parte anche il dialetto, infatti oggi non c’è più quella differenza di linguaggio tra centro a periferia come all’epoca di Pasolini. La situazione è decisamente diversa e migliore.
Ci spieghi meglio.
Per esempio, durante un mio reportage su Fidene, il parroco mi diede un libretto fotografico che riportava la situazione del quartiere negli anni di Pasolini: non c’era una rete fognaria funzionante, acquitrini sparsi ovunque con un costante cattivo odore e la gente doveva mettersi i calzari per andare al lavoro senza riempirsi di fango. Una situazione che fortunatamente oggi non c’è più, ma questo non significa che dobbiamo rilassarci, anzi dobbiamo darci da fare per rendere questa città sempre più vivibile, soprattutto in alcuni quartieri.
Cosa si può fare per riqualificare il territorio periferico?
Non è facile trovare delle soluzioni, però è chiaro che ci sono dei quartieri che sono stati abbandonati a sé stessi. Hanno pochi collegamenti con il centro e vivono una vera situazione di isolamento, che bisognerebbe cercare di sconfiggere. Penso alla Borgata Fidene, non molto lontano da casa mia, che dagli Anni Cinquanta si è evoluta tantissimo, eppure non c’è un cinema, un teatro, non ci sono posti di ritrovo, quindi è chiaro che la mancanza di punti di aggregazione poi si ripercuote sui giovani.
In che modo?
Si spostano in altri quartieri o si chiudono in casa davanti alla televisione, come avviene anche nelle grandi periferie italiane, dove aumenta anche il numero dei suicidi giovanili proprio a causa di questo isolamento che diventa insopportabile. Nelle periferie estreme i giovani sono profondamente isolati, senza neanche più tanta voglia di spostarsi e se decidono di muoversi lo fanno in gruppo verso il centro, dove trascorrono tutta la giornata per poi rientrare la notte. Però spesso la maggior parte del tempo la passano nel quartiere, davanti ai bar o addirittura chiusi in casa, perché non vogliono uscire, non ci sono strutture, niente che li stimoli. Ad esempio, nel quartiere di Scampia, a Napoli, i giovani vengono chiamati “invisibili” perché non si vedono mai.
Com’è il suo rapporto con Roma?
Personalmente ho un rapporto di amore e odio con Roma. Mi piace pensarmi al centro del mondo, ma non sopporto riconoscere in me i tratti di quel cinismo romano che esiste da sempre. Per il mio mestiere di scrittore la periferia ha rappresentato un punto fondamentale, ho ambientato qui tante mie storie, anche se preferisco la Roma multietnica, vivace e giovane di Testaccio e di San Lorenzo, pur con tutte le sue contraddizioni. Non mi piacciono le borgate abbandonate a sé stesse e i quartieri isolati, come Olgiata e Casal Palocco che evitano qualsiasi tipo di confronto con l’esterno.
Che ruolo possono avere le parrocchie o altre associazioni che operano sul territorio?
Le parrocchie sono spesso presenti, essendo anche i luoghi più accessibili. I parroci, grazie alla loro voglia di confrontarsi e a un maggiore livello culturale, permettono di avere uno scambio comunicativo che non sempre avviene in una periferia. Gli oratori non hanno più l’aspetto di tanti anni fa e oggi i preti, molto più aperti e disponibili, fanno del loro meglio, dimostrandosi spesso più utili di tante altre realtà. Sono tra le persone più attive nel cercare di essere un punto di riferimento per i giovani e per tutte le persone che abitano queste realtà così degradate. Spesso in alcuni quartieri, la parrocchia è anche l’unica scelta, l’unico luogo a cui ci si può rivolgere.
Come potrà cambiare la periferia della capitale nei prossimi anni?
Sono di natura abbastanza pessimista. Non credo che nei prossimi dieci o vent’anni potranno esserci chissà quali cambiamenti, però dipende anche da chi avrà le redini della città. L’importante è che in questa città non venga mai meno il rapporto e la scoperta dell’“altro”, cioè che non diventi una città disumanizzante come è oggi in certi quartieri.
Provi a darci una sua “ricetta”?
Bisogna puntare sull’anima del romano, che in alcuni casi è anche cinica, ma che non deve mai diventare bestiale o incontrollabile come succede in qualche caso. Per quanto riguarda il mio lavoro, l’obiettivo principale è essere sempre precisi e affidabili nella descrizione dei luoghi, fedeli e onesti nel presentare queste realtà troppo spesso prive di storia e di memoria.
(Claudio Perlini)