«Volevamo fare un film ambientato a Roma perché è il territorio che conosciamo meglio e raccontarlo in dialetto romano perché è quello che parliamo anche noi. Corviale non è stato scelto perché pensiamo che rispecchi effettivamente la violenza del film o perché sia davvero teatro di quelle azioni, ma per un motivo puramente estetico».
Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, intervistati da IlSussidiario.net, sono i giovani registi romani del lungometraggio Et in terra pax, presentato a numerosi festival italiani e internazionali e uscito da poco nelle sale cinematografiche italiane. È ambientato nel quartiere Corviale di Roma, luogo del cosiddetto “serpentone”, due palazzi di nove piani lunghi un chilometro del 1972 che ospitano 1.200 appartamenti di diverse dimensioni: «È un palazzo incredibile, – ci dice Botrugno – una struttura fuori dal comune che perfino i romani conoscono poco e nel film è quasi un personaggio aggiunto. Il lungometraggio, più che del disagio e del degrado, parla della solitudine della periferia, e credevamo che questo palazzo lungo un chilometro costruito su una collina avrebbe rappresentato quel qualcosa in più che cercavamo, il luogo in cui far muovere i nostri personaggi e far accadere le nostre vicende».



Cosa avete cercato di mostrare della periferia romana?

Molte scene del film sono crude, violente. Non avevamo però intenzione di raccontare unicamente Roma e la sua periferia, ma di far capire che quei luoghi potrebbero trovarsi in una qualsiasi città del mondo. Abbiamo presentato il film in tutta Europa e perfino in Giappone, dove nessuno si è posto il problema di dove fossero ambientate le scene, anzi in molti ci hanno detto che riconoscevano in quel quartiere una zona popolare di Tokyo. La stessa cosa è successa anche a Copenaghen, a Londra, in Spagna e in Germania, dove tutti riconoscevano una parte periferica della propria città in diverse scene del film.



Il film si intitola “Et in terra pax” come uno dei Gloria di Vivaldi, che è anche la colonna sonora. Come mai questa scelta?

Mentre scrivevo il soggetto – ci dice stavolta Botrugno – ascoltavo proprio quella musica. Cercavo di scrivere facendomi ispirare da quelle note e ho proposto “Et in terra pax” come titolo a Daniele Coluccini e Andrea Esposito, il co-sceneggiatore. Ci siamo trovati tutti d’accordo sul fatto che quella scelta avrebbe garantito il contrasto tra musica sacra e i temi del film piuttosto crudi e profani, in un’ottica anche vagamente provocatoria.



Quanto vi ha ispirato Pasolini?

Lui è un’ispirazione a prescindere dal film ed è un modello per quanto riguarda l’arte, la poesia, la letteratura e anche il cinema. Quindi su alcuni aspetti, come l’uso della musica che a tratti appare quasi epica, è sicuramente chiara la sua influenza, che su di noi è sempre stata molto forte.

Come è cambiata secondo voi la periferia dagli anni di “Accattone”?

Quella di Pasolini è la periferia di cinquant’anni fa, – ci spiega Coluccini. Sono cambiate tantissime cose, ma si è avverato quello che aveva profetizzato, cioè che la “borgata” si sarebbe avvicinata alla borghesia, per esempio per quanto riguarda le necessità. Citando il critico e scrittore Walter Siti, profondo conoscitore di Pasolini, non è solo la borgata che si va “imborghesendo”, ma è anche la borghesia che si va “imborgatando”.
Nella periferia di oggi si è spostato l’asse delle necessità: il problema non è più mangiare, ma è avere il capo firmato. Il modello da seguire è quello che si vede in alcuni programmi televisivi e ora lo scopo è raggiungere quello status di totale superficialità.

Secondo voi il film è piaciuto agli abitanti di Corviale?

Abbiamo ricevuto delle polemiche da qualche residente che temeva che il film potesse offrire un’immagine sbagliata del quartiere – dice Botrugno -. Guardando il film, però, solo chi ci abita e altri pochi romani riescono a riconoscere quei luoghi, perché si tratta essenzialmente di un grande palazzo grigio che potrebbe trovarsi a Scampia a Napoli o al Quarto Oggiaro a Milano, o in qualsiasi altro posto nel mondo.
Abbiamo risposto a queste persone dicendo che la nostra intenzione non era quella di mettere in cattiva luce Corviale, anzi abbiamo sempre detto che nel quartiere c’è una bella biblioteca, una palestra di pugilato dove i ragazzi si ritrovano per fare sport e tante altre attività nate spontaneamente anche all’interno del “serpentone”.

Qual è allora il problema delle periferie?

Sono troppo isolate e a quanto pare queste attività non bastano. La politica, invece di pensare a radere al suolo un luogo per poi ricostruirlo, perché non sceglie di rivalutare una zona e di cercare di ridurre la distanza che esiste tra i vari quartieri intorno al centro? Faccio l’esempio di Arco Travertino, – ci dice Botrugno – non lontano da casa mia, che non è distante dal centro, ma si respira quell’aria un po’ “rustica” di periferia: c’è la metro ed è una zona ben collegata, che permette non solo di far muovere i residenti, ma anche di far conoscere quel luogo a chi non ci abita.

Invece Corviale?

In una zona come Corviale non ci si va ed è una zona frequentata unicamente dai residenti. La politica arriva da quelle parti solo in campagna elettorale, si fanno discorsi, comizi, promesse, qualche evento e qualcuno ci crede pure, ma alla fine non cambia niente. Non è un fatto di essere di destra o di sinistra, perché delle periferie se ne fregano tutti.

Inconvenienti durante le riprese?

Abbiamo visto e conosciuto tanti tipi di persone, e qualcuno ci ha anche aiutato per esempio a trasportare dell’attrezzatura, mentre qualcun altro era semplicemente incuriosito e assisteva a tutta la preparazione delle scene. Però, se posso essere sincero – conclude Botrugno -, la maggior parte dei residenti “non c’ha filato per niente”: ci lasciavano lavorare tranquillamente e noi cercavamo di creare il minor trambusto possibile.

(Claudio Perlini)

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