We are sick, we are sick. We are sick sick sick. Like we’re sociologically sick. Così cantano allegramente I “sociopatici” nel brano Officer Krumke di West Side Story, il musical composto da Bernstein verso la fine degli anni cinquanta. Nella storia la processione dei giovani disturbati parte bene perché il colpevole viene portato innanzitutto dal giudice, però viene subito girato allo strizzacervelli per finire poi dall’assistente sociale.
Qualcuno dirà che anche i giovani del branco che hanno massacrato fino al coma irreversibile il ventinovenne musicista romano sono malati. Magari socialmente malati, ma malati con tanto di toccanti storie traumatiche alle spalle buone a giustificare tutto. Teorie patogenetiche che privano della libertà, fino ad annullare l’imputabilità della persona.
Si tratta invece di delinquenti, bisogna avere il coraggio di dirlo. I loro atti gravemente lesivi della persona, compresi dal codice penale, troveranno infatti una sanzione adeguata nel diritto, probabilmente senza attenuanti.
Cosa contraddistingue però dal punto di vista antropologico un soggetto che si rende colpevole di siffatte azioni? Io ritengo sia la perdita del riconoscimento dell’altro.
L’altra persona – conosciuta o ignota fino a un attimo prima fa poca differenza – sfuma i suoi contorni, perde la sua fisionomia fino ad appiattirsi e piombare nel mondo animale o vegetale. Prendere a botte uno fino a rompergli la testa e togliergli per sempre la coscienza ha la stessa valenza di schiacciare una zanzara sul muro, calpestare una formica sul marciapiede o stropicciare con le dita una foglia secca mangiata dai bachi.
L’altro non esiste più nella sua dignità e nella sua unicità, è pura comparsa in un mondo fatto a propria immagine e somiglianza in cui si può fare tutto quello che pare di ciò che si intercetta lungo la via. La mancata coscienza e consapevolezza dei propri atti, in casi come questi, è secondaria alla mancata coscienza e consapevolezza di cos’è un uomo.
Siccome nessuno è perduto, mai e in nessun modo a meno che non insista a volerlo, auguriamo ai giovani responsabili del crimine quel lungo lavoro necessario per recuperare il senso di sé e dell’altro, ossia del reale.
Che il tempo che per un po’ inevitabilmente si libererà nelle loro vite diventi occasione feconda di conversione del proprio pensiero, in compagnia di qualcuno capace di favorire questo processo di ri-orientamento del soggetto nel suo moto.
Ma è giusto chiederci anche come possiamo evitare che situazioni analoghe si ripetano, anche in forme di minor gravità. Una via sta nel favorire in ogni modo l’accesso al pensiero della convenienza dell’altro, di un soggetto esterno a sé – a sua volta pensante – capace di innestarsi sul mio lavoro personale in modo da produrre un di più vantaggioso per entrambi.
E’ in fondo questa una forma dell’amore, che vede la partnership fra soggetti nel creare valore dove prima c’era il vuoto. Sta a noi adulti trasmettere ai più giovani, con sincerità, questa visione della vita secondo cui ogni altro è potenzialmente amico, perché partner nel lavoro comune di creare ricchezza per tutti.
Se poi questo altro è magari un musicista rompiscatole e un po’ rumoroso e per questo decido che proprio non mi piace, non gli farò comunque del male. Piuttosto lo ignorerò. Chissà mai che un giorno, magari fra qualche anno, non lo possa ritrovare nella band che allieterà la mia festa di nozze. Quando magari gli offrirò persino un drink per avermi fatto ballare con la mia sposa sulla canzone del nostro amore.