«È una storia che comincia quarant’anni fa con don Mario Picchi che è stato il pioniere delle comunità terapeutiche, il primo a capire che un tossicodipendente era solamente un uomo con un problema in più. È stato anche il primo ad affrontare il mondo della droga quando nessuno era in grado di rispondere a questo problema. Ulteriore merito gli deve essere riconosciuto nell’idea innovativa che prevedeva, prima dell’inserimento in comunità terapeutica, un periodo di accoglienza semiresidenziale grazie al quale un ragazzo veniva preparato a tale impegno. Il nostro programma ha la caratteristica fondamentale di essere fatto a misura d’uomo, mai standardizzato o uguale per tutti». E oggi il Centro Italiano di Solidarietà intitolato a Don Mario Picchi e portato avanti dal presidente Roberto Mineo, intervistato da IlSussidiario.net, si avvale del “progetto uomo”, un programma terapeutico che, seguendo le caratteristiche e le diversità di ogni persona, prevede la scelta e il raggiungimento di un obiettivo personale.
Per quale motivo nasce il Ceis?
Quarant’anni fa nasceva come centro specializzato per il recupero dei tossicodipendenti, una problematica sociale che negli anni Settanta rappresentava una grande emergenza. Lo è anche oggi, anche se meno visibile. La prima comunità terapeutica è stata regalata dal Papa a Don Mario affinché si potesse occupare di questi ragazzi, a cui era necessario poter dare il giusto spazio per gestire i loro bisogni. Si è poi allargato con altri centri, fino ad arrivare a tre comunità residenziali, due a Castel Gandolfo e una sull’Appia Nuova.
Com’è cambiato il Ceis nel corso del tempo?
Con il passare degli anni i problemi sociali non riguardavano più solo la tossicodipendenza ma anche tantissimi altri aspetti, quindi il Ceis si è evoluto e adesso è impegnato su tutti i fronti per persone da 0 a 100 anni, con lo stesso obiettivo primario di sempre che è quello di offrire un servizio a chi ha più bisogno, quindi bambini, adolescenti, anziani e malati di Aids. Lavoriamo anche molto con le scuole con l’attività che si chiama “peer-education”.
Di che si tratta?
Semplicemente di un’educazione trasmessa appunto da un “peer-educator” a gruppi di ragazzi, che si trasmettono, con il loro linguaggio, quelle che sono le problematiche giovanili. E chi meglio di loro può comunicare o tradurre i pericoli delle situazioni attuali della tossicodipendenza, delle malattie sessualmente trasmissibili o dell’alcol?
In quali aree operate maggiormente?
Oltre che a Roma, a livello nazionale, europeo e internazionale. Oltre a essere un’associazione Onlus, siamo anche all’interno delle Nazioni Unite come Ong e come tale abbiamo costruito vent’anni fa un ospedale in Bolivia in mezzo alla giungla, ancora oggi funzionante e che ancora oggi è il fiore all’occhiello dei nostri progetti.
Cosa significa prendere le redini del Ceis dopo Don Mario Picchi?
Sono stato a fianco di Don Mario per trent’anni e ci diceva sempre che questo non è un lavoro, ma un servizio che forniamo a tutti coloro che ne hanno bisogno. Per lavorare con le persone c’è bisogno di impegno, passione, ma soprattutto di cuore e anima, e Don Mario ci ha sempre insegnato come farlo al meglio. Anche se siamo un’importante istituzione l’ufficio è sempre aperto e chi vuole può fermarsi a raccontare i propri problemi o semplicemente scambiare due chiacchiere.
Quando un ragazzo si presenta nel vostro Centro cosa fate prima di tutto?
Una volta che una persona arriva viene fatto un colloquio anche in presenza della famiglia. Si fa una valutazione e si indirizza la persona verso le diverse tipologie di programma. Per i giovani che si sono avvicinati da poco al mondo della droga e che quindi non necessitano di andare in comunità abbiamo i programmi per i minorenni. C’è poi il programma serale, per le persone che fanno uso di droga, ma che lavorano tutto il giorno e che quindi non possiamo inserire in una comunità residenziale.
Progetti recenti?
Abbiamo aperto un Centro di Accoglienza per Minori e Giovani Adulti a Rischio Penale finanziato dall’Agenzia Capitolina per le Tossicodipendenze e nato dall’esperienza del Ce.I.S, nel campo delle problematiche giovanili. Accoglie minori e giovani adulti, dai 14 ai 21 anni, consumatori di sostanze a rischio penale o con recidive, coinvolti in progetti di messa alla prova e affidamento ai servizi sociali, al fine di offrire uno spazio protetto e di contenimento per il superamento di situazioni di disagio e per il recupero e la prevenzione di situazioni a rischio.E per quanto riguarda le situazioni di alcolismo?
Abbiamo integrato le conoscenze maturate nel campo della tossicodipendenza con quelle del Club degli Alcolisti in Trattamento (CAT). Il progetto, frutto della collaborazione tra il programma San Carlo, i SerT dei Castelli Romani e i servizi di alcologia, è rivolto a persone con problemi legati all’abuso e alla dipendenza da alcol e alla risoluzione dei comportamenti alcolc orrelati. L’esito atteso è quello di contribuire a rinforzare le reti di promozione e di protezione della salute nella società.
Ultimamente a Roma si parla molto del problema dell’alcol tra i giovanissimi…
L’alcol sta diventando davvero molto pericoloso ed è accettato in famiglia perché è legale. Abbiamo da poco svolto un’indagine che ha dimostrato che i ragazzi cominciano a bere già a dodici, tredici anni: senza nessun tipo di prevenzione tra qualche anno ci ritroveremo un esercito di zombie, con cirrosi epatica e tutte le conseguenze dell’alcol che sono disastrose. Ma la cosa peggiore è che tutto è legato a un fatto di business: basta guardare la televisione e tutte quelle pubblicità di marche di birra e di liquori che cercano di trasmettere sensazioni di gioia e benessere, quando poi ci accorgiamo, attraverso i fatti di cronaca, gli incidenti stradali e le tragedie, che la realtà è ben diversa.
(Claudio Perlini)