L’obiettivo di una scuola migliore, più efficiente e più capace di impegnare gli alunni nel percorso della conoscenza, passa anche dal miglioramento delle condizioni dell’edilizia scolastica. Notizie confortanti in questo senso provengono dalla provincia di Roma che in settembre aprirà sette nuovi edifici in periferia, tra nidi, scuole materne ed elementari. Gli accordi Stato-Regioni e in particolare la legge sul federalismo fiscale, (L. 42/2009), si occupano anche dell’istruzione, legando le spese per l’edilizia scolastica, che debbono essere coperte dal gettito tributario, ai LEP, i livelli essenziali delle prestazioni. I Lep sono indicativi dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e l’edilizia scolastica è demandata alla competenza delle Province e dei Comuni. Gli impegni del territorio si incrociano a loro volta con una della maggiori priorità individuate dal Ministero della Pubblica Istruzione che ultimamente ha deciso la messa in sicurezza di 9 milioni di persone (tra docenti, personale amministrativo e alunni) e 45.000 scuole allo scopo di prevenire situazioni di rischio presenti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Insomma, anche su questo versante l’Italia concreta e solidale, capace di fare rete e di promuovere le responsabilità dei vari soggetti istituzionali e privati, se esiste, come crediamo, è alla prova. Sono aperti tavoli, sono definite competenze, è stata stilata una anagrafe strutturale degli edifici. Il recente passato purtroppo non è stato all’insegna della sicurezza e nemmeno della minima decenza di amministrazioni locali e nazionali che intendono occuparsi seriamente dell’educazione dei giovani. Affiorano in queste brevi note i ricordi di tragedie come quella di Rivoli (2008), dove un giovane perse la vita per il crollo di un soffitto, oppure di San Giuliano (2002) dove il terremoto abbattè una scuola uccidendo 27 bambini e le loro maestre. Non si può nemmeno pensare che bastino delle intese formali a sistemare le scuole (ancora migliaia) che non sono a norma, che sorgono in ambienti non creati in origine per la futura destinazione formativa, che l’usura del tempo ha reso fatiscenti e al limite della praticabilità. Le premesse però ci sono, si tratta di usare degli spazi che le norme rendono fruibili per rispondere alla emergenza educativa che tutti richiamano da tanto tempo.
L’esempio di Roma apre tuttavia un altro tipo di riflessione: che cosa farci nella scuola, fosse anche collocata nell’edificio più funzionale di questo mondo e nel territorio più ospitale della terra? Se nella scuola non accade qualcosa, se nei ragazzi non si accende l’interesse per la scoperta della realtà attraverso lo studio, i muri puliti e le eventuali pareti che si ampliano o si restringono a seconda delle discipline che si insegnano servono a ben poco. Fidiamoci una volta tanto delle osservazioni internazionali e osserviamo, come spesso rileva l’Ocse-Pisa che il livello di apprendimento è connesso al clima della classe, cioè al livello di implicazione che l’insegnante realizza con i propri alunni, in rapporto a ciò che insegna. Bisogna pure dirlo a scanso di equivoci: i ragazzi hanno sete di conoscenza, nel senso che hanno bisogno di capire il significato delle cose che si spalancano loro di fronte in maniera sempre diversa a seconda dell’età. Una scuola di periferia, primaria o secondaria che sia, non è destinata alla emarginazione e al disagio perché non baciata dalla collocazione urbanistica. Certamente, come detto, le condizioni ambientali aiutano, e bisogna continuare a chiedere ed operare perché siano delle migliori (evitando da questo punto di vista sprechi inutili, come anche assurdi risparmi e storiche dimenticanze), ma la scuola è anzitutto definita dal rapporto (quasi sacrale) che si sviluppa tra insegnanti che come adulti sono richiesti di una responsabilità unica e alunni cui spetta la pazienza di mettersi a seguire qualcun altro con cui paragonarsi. L’apprendimento non avviene se non c’è insegnamento significativo che magari può anche prolungarsi in una compagnia educativa tra giovani e adulti. In questo senso, occorre che questo Paese, come spesso ha promesso, cominci ad occuparsi seriamente della condizione degli insegnanti che non possono essere considerati alla stregua di impiegati il cui compito è al massimo quello di aiutare gli alunni a socializzare o ad integrarsi nella cultura/culture nella quali si imbattono. La responsabilità docente comprende vocazione alla comunicazione educativa, competenza sui contenuti dell’insegnamento e assunzione di compiti di carattere sociale. Un profilo che si accorda con una delle più delicate funzioni della comunità. Sarebbe inutile ai fini stessi della crescita del capitale umano della comunità impedirsi di pensare i compiti vecchi e nuovi che il desiderio di identità dei giovani affida agli insegnanti. Desideri di umanità vera, sete profonda di verità e di essenzialità. Territori tutti da scoprire anche alla luce anche di una valorizzazione di coloro che hanno intrapreso una così impegnativa professione, come appunto è quella dell’insegnante.