A Roma mancano all’appello almeno 350 fornai e i giovani, nonostante crisi e disoccupazione, non hanno intenzione di sacrificare la loro vita sociale per evitare che questa figura professionale sparisca per sempre. L’età media dei panificatori si aggira intorno ai 65 anni e il lavoro è senza dubbio molto duro: si lavora di notte e si dorme di giorno, ma il salario risulta a fine mese consistente, tra i due e i tre mila euro. IlSussidiario.net ha intervistato Giancarlo Giambarresi, presidente dell’Unione panificatori della Confcommercio e titolare di un forno nel quartiere Montesacro di Roma: «Uno dei grandi problemi è quello del ricambio generazionale, perché abbiamo una media d’età intorno ai 60 anni, quindi sono sempre più richieste figure professionali che un giorno colmino questi vuoti, che però vanno formate e proprio per questo partirà a settembre un corso, già svolto l’anno passato,  per i ragazzi che gradualmente potranno  inserirsi nelle aziende e crescere fino a imparare un mestiere».



Il presidente Giambarresi spiega poi i vari motivi per cui i giovani non sembrano interessati ad intraprendere questo mestiere: «Nonostante le soddisfazioni economiche siano molte, queste figure professionali mancano innanzitutto per l’orario, che è piuttosto pesante, e lavorare di notte significa recuperare le forze di giorno, a discapito della vita di relazione. I giovani, che hanno molto bisogno di stare insieme, si vedono in qualche modo chiusi e non lo accettano. Inoltre questo mestiere comporta uno spirito di sacrificio molto forte e tanta passione che, se dovesse mancare, alla fine lascierebbe il posto alla fatica. Ci sono stati tanti ragazzi che, nonostante durante i nostri corsi fossero molto bravi, dopo aver cominciato a lavorare la notte, hanno ceduto dopo pochi mesi». Oltre all’ottimo salario, Giambarresi spiega anche la soddisfazione che si ottiene nel creare con le proprie mani un prodotto e vederlo uscire dal forno, pronto per essere servito: «Quando si mettono insieme degli elementi apparentemente insignificanti, arrivando poi a sfornare una pagnotta o un filone che ha lievitato naturalmente, si prova una grande soddisfazione. L’umore del fornaio si nota subito la mattina in base al pane che sforna: se viene bene si respira un’atmosfera rilassata e serena sia all’interno del negozio che nel laboratorio; se invece, per qualche motivo, il prodotto finale è deludente, l’umore sarà nero per il resto della giornata. In questo periodo il principale nemico è il caldo, che fa lievitare troppo velocemente il pane, rischiando di rovinarlo».



Secondo Giambarresi un altro motivo per cui i giovani non si avvicinano a questo lavoro è “il tasso di scolarizzazione: ci sono infatti molti laureati che, anche se disoccupati, aspirano giustamente a un lavoro che si avvicini il più possibile ai propri studi: bisogna però dire che, soprattutto di questi tempi, bisogna anche adattarsi, e adesso, anche grazie alla famiglia, si può temporeggiare di più. Prima non era così, e quando c’era meno benessere economico, ci si accontentava di quello che passava il convento.

Ma questo accade anche in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti, dove questi lavori sono principalmente svolti da persone che hanno o una grande capacità di adattamento o un livello di scolarizzazione basso. Anche se oggi fare il fornaio e il panificatore richiede comunque una certa preparazione, e nei nostri corsi la base teorica è importantissima: si va dall’HACCP (sistema di autocontrollo igienico che ogni operatore nel settore della produzione di alimenti deve mettere in atto, ndr), alle leggi sulla sicurezza, dai processi fermentativi fino a quelli chimici, insomma è un lavoro che deve essere fatto in modo serio e proprio per questo anche noi siamo molto rigorosi”.



Infine, spiega Giambarresi, un’altra ragione è quella dello “status symbol”, del prestigio: «Quando si pensa al fornaio ci si immagina la persona con la divisa bianca, circondato da macchinari e leggermente sporco di olio o farina, tutte cose che non ne fanno certamente un modello da copertina. Il lavoro è però anche questo, e se riuscissimo a mettere da parte questi condizionamenti sociali vivremmo anche molto meglio”.  Concludiamo poi parlando dell’importante ruolo che il pane ricopre nelle nostre tavole e, anche se gli stili di vita e le abitudini degli italiani cambiano, si cerca sempre di sfornare nuovi prodotti per riuscire ad accontentare tutti: «Ormai non si va dal fornaio a comprare solo la classica rosetta – spiega Giambarresi – ma, visto che la nostra città è sempre più multietnica e multi regionale, ci sono tante persone che cercano quei tipi di pane che si avvicinano alle loro radici: c’è quindi il pane di Terni, quello sardo, quello di Ferrara, e così via. Ricordo che un tempo, nel forno di famiglia, avevamo quattro o cinque tipi di pane, come le rosette, le ciriole, i panini all’olio, il casereccio e il pane napoletano, mentre ora ne vendiamo circa venti o venticinque, per riuscire sempre più ad accontentare le tante richieste».   

 

(Claudio Perlini)