Ancora non ci sono le cifre ufficiali, ma incrociando i vari dati di sindacati, associazioni di categoria, Inail e Inps risulta che fra giugno e settembre almeno 5 mila persone hanno perso il lavoro in molte piccole e piccolissime imprese, dai trasporti ai servizi informatici, dagli studi professionali al commercio. Un rientro quindi molto amaro per tanti romani, soprattutto tra i 40 e i 45 anni, dipendenti di aziende che a causa della crisi non hanno riaperto dopo le ferie. Lorenzo Tagliavanti, direttore della Cna di Roma, ha dichiarato che questo è un «problema serissimo. All’inizio della crisi erano state soprattutto le grandi imprese a licenziare, a mandare in cassa integrazione o a mettere in mobilità i lavoratori, mentre adesso il fenomeno è diverso: tantissimi piccoli imprenditori, che per resistere hanno messo i proprio soldi nell’attività magari vendendo la seconda casa o attingendo ai risparmi personali, hanno gettato la spugna. Perché la crisi va avanti da troppo tempo e non si vedono spiragli all’orizzonte. Basta guardarsi intorno, camminare per strada e contare le saracinesche che sono rimaste abbassate dopo l’estate». Eppure, continua a commentare Tagliavanti, in questa drammatica situazione «le imprese chiudono, ma il numero complessivo anziché diminuire aumenta perché magari il tecnico o il dirigente licenziato decide di aprire la partita Iva e mettere su una propria micro-impresa». IlSussidiario.net ha chiesto un parere della situazione attuale a Clara Caselli, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese e di Management internazionale presso l’Università degli Studi di Genova: «La situazione rivela aspetti di crisi concentrati sulla piccola dimensione e sul terziario, che è una specificità del Lazio, ma si tratta di problemi che sta vivendo anche tutto il resto del Paese. Dopo l’estate tutti ci chiediamo cosa accadrà in autunno al nostro sistema economico produttivo, e a volte si possono avere queste brutte sorprese, quindi è importante che gli esperti analizzino i dati il prima possibile per capire se si tratta di casi isolati o meno, perché per ora non riusciamo ad andare oltre a quelle che sono semplici impressioni. C’è un problema tipico di questa fase che stiamo vivendo: i conflitti che percorrono la società sono cambiati, come anche i rapporti di forza tra chi riesce a farsi ascoltare e chi invece non ce la fa. Tra quelli che non riescono a farsi sentire ci sono senza dubbio i piccoli e piccolissimi imprenditori, che vengono letteralmente abbandonati. Quindi che cosa può aiutarli?



La manifestazione non sempre risulta poi così utile, perché spesso si conclude con una pacca sulla spalla e nient’altro, e forse una cosa che davvero può aiutare è cercare di vivere questa situazione di difficoltà, perché un grande problema delle piccole e medie imprese è proprio la solitudine in cui questa tragedia si sviluppa: bisogna avere un contesto in cui poter condividere i problemi che gli imprenditori e i dipendenti hanno e aiutare a capirli, perché potrebbero esserci capacità e competenze da utilizzare in un altro modo, o semplicemente può essere d’aiuto far capire che è tempo di cambiare. Ed è proprio questo il nodo della crisi, che non sta passando e che prende aspetti diversi: per quel mondo fatto di “piccoli”, di reti tradizionali, che ci ha permesso nella prima fase della crisi di sopportarla, probabilmente è arrivato il momento della verità, quindi la crisi può essere anche considerata un momento “privilegiato” per cambiare, perché spesso siamo obbligati a farlo. Può essere una cosa traumatica, difficile, che non tutti riusciranno a sopportare, e sicuramente qualcuno dovrà pur chiudere: però è fondamentale che tutto questo processo culturale di cambiamento possa essere fatto in una condizione che non sia di solitudine e che possano nascere nuove reti di solidarietà, perché pensare che lo Stato possa aiutare tutti i settori è un’utopia. Non voglio dire che non sia giusto chiedere e rivendicare qualcosa allo Stato, ma bisogna farlo sapendo che se al tempo stesso non ci mettiamo in prima persona, da protagonisti, a costruire dei nuovi tessuti e delle nuove risposte, è improbabile che lo Stato possa offrire soluzioni. Ci sono due criticità in questo passaggio: i lavoratori di età avanzata a cui riesce difficile cambiare proprio per il fatto di non essere più così giovani, e i due milioni di giovani che, secondo il rapporto Censis,  non studiano e non lavorano. La soluzione, prima che essere pubblica, è sociale, e deve esserci un tessuto sociale nuovo che di fronte ai tempi che cambiano e alla velocità impressionante con cui cambiano faccia qualcosa».



 

(Claudio Perlini)

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