Due anni fa, i maggiori teatri italiani tennero quasi un festival di “Entartete Musik” (“musica degenerata”, appellativo datole da Goebbles). A Milano alla Scala venne presentato un nuovo allestimento di “Lulu” di Berg, a Palermo ci fu la prima messa in scena in Italia di “Die Geizeichneten” (“I Predestinati”) di Schreker, a Roma la prima esecuzione romana di “Eine florentinische Tragoedie” di Zemlisky.
In breve, tre esempi di quella “musica degenerata” con cui la Germania nazista definì gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino. C’erano due filoni distinti: uno austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) e uno di stampo tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare e il jazz.
La “Entarteke Musik” tedesca non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. Anzi, pare piacesse a Benito Mussolini. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Berg (vietatissimo in Germania e nelle “terre occupate”) in versione ritmica italiana, con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra. Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituali del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato come concorrente del Festival di Salisburgo.
La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – e la Decca le ha dedicato una collana di dischi. In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni, ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemlisky, con successo di pubblico, oltre che di critica.
Il solo che mancava sino ad ora all’appello era “Die Geizeichneten” non tanto per l’argomento scabrosamente esplicito quanto per il complesso impegno produttivo. Tuttavia, c’è anche una “Entartete Musik” italiana che è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare.
In effetti, nel Ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico-sinfonici e i teatri “di tradizione”, sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”.
Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi e “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici.
Come sempre, l’ideologia ammazza la ragione. E la “grande stampa d’informazione” (o presunta tale) nasconde le belle notizie: grazie agli sforzi dell’Orchestra Sinfonica di Roma e del suo creatore e direttore, Francesco La Vecchia, “la musica degenerata” italiana sta uscendo dall’oblio. L’Orchestra Sinfonica di Roma – lo si sappia – è l’unico complesso musicale italiano che non riceve alcuna sovvenzione pubblica. Vive con un contributo della Fondazione Romana e l’apporto di un’associazione di appassionati. Pratica prezzi bassi: per 30 concerti, l’abbonamento è 300 euro che diventano 180 per gli anziani e 100 per gli studenti. Ha un organico stabile di 80 professori d’orchestra, in gran misura attorno ai 35 anni di età. Ha svolto tournée in tutto il mondo.
Nei dieci anni circa di attività ha svolto anche un’attività sociale: oltre 200 concerti in istituti di detenzione e pena, centri di recupero di tossicodipendenti, scuole di periferia. Ha appena inaugurato una sede nuova a Via dei Cerchi 89, di fronte al Circo Massimo (in locali che sono pertinenza della Chiesa di Santa Anastasia) e da alcuni anni si è data la missione di fare uscire dall’oblio la grande sinfonica italiana della prima metà del Novecento. La offre nella stagione dell’Auditorium di Via della Concilia e la registra con una grande casa discografica internazionale (la Naxos).
Non ha i mezzi per affrontare la lirica “obliata”, speriamo che lo facciano La Scala, La Fenice e il Teatro dell’Opera di Roma – i tre teatri maggiormente sovvenzionati dallo Stato. La prossima stagione (annunciata il 24 settembre) pone l’accento sulla grande sinfonica italiana del Novecento (Casella, Sgambati, Respighi, Ghedini, Mancinelli, Catalani, Martucci, Petrassi) affiancati al grande repertorio. Pubblicata l’integrale di Martucci, stanno ora per uscire quelle di Casella e Respighi.
Nei prossimi cinque anni arriveranno gli altri. Si tratta di musicisti di cultura romana, anche se non sempre nati a Roma. Sorge una domanda: perché un compito simile non viene svolto dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che riceve circa 50 milioni di euro di sovvenzioni l’anno?
E una seconda: perché La Scala, La Fenice e il Teatro dell’Opera di Roma non si danno il compito di fare rivivere l’opera italiana “obliata” della prima metà del Novecento? Con quel che costano al contribuente un pensierino a riguardo dovrebbero farlo.