Lunedì 16 Terry Gilliam e Roberto Abbado presenteranno, in un luogo inconsueto (il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma) l’opera con cui viene inaugurata la Stagione 2012 del Teatro Massimo di Palermo: “La damnation de Faust” di Hector Berlioz.
Terry Gilliam è noto come geniale innovatore del linguaggio televisivo, cinematografico e teatrale postmoderno, per la prima volta impegnato nell’opera; ciò spiega il luogo della presentazione e perché saranno presenti anche gli allievi della Scuola Nazionale di Cinema. L’allestimento è coprodotto dal Teatro Massimo con la ENO-English National Opera di Londra e la Vlaamse Opera di Anversa e Gent. Terry Gilliam interpreta la “leggenda drammatica” come un’allegoria del declino spirituale e culturale della Germania dagli Anni Venti, al nazismo, ai campi di concentramento. Non mancano riferimenti a Thomas Mann oltre che a Marlowe e a Goethe in una fantasmagoria visiva in cui riferimenti alla pittura del romanticismo tedesco si fondono con nazionalismo militaresco, la prima guerra mondiale e filmati d’epoca sino alla catastrofe finale. In tale contesto, emerge la duplicità sia di Faust sia di Mefistofele.



La Damnation de Faust di Hector Berlioz non è un’opera per la scena in senso stretto; chiamata, dall’autore “leggenda drammatica in quattro parti e dieci quadri”, è stata concepita inizialmente come un’“opera da concerto”. Dopo due rappresentazioni disastrose alla Salle Favart di Parigi nel 1846 (grandi lodi dalla stampa, ma poco pubblico), il successo le arrise solo trent’anni più tardi, dopo il 1870 o giù di lì; da allora è entrata gradualmente nei programmi di complessi sinfonici e di teatri, diventando uno dei lavori più eseguiti (spesso in forma semplificata) di Berlioz.



Si presta però a essere rappresentata in teatro. Nel 1983, fece scalpore una versione scenica di Giancarlo Cobelli come spettacolo inaugurale del Teatro Comunale di Bologna poiché nella scena finale compariva  un ermafrodito. Più di recente un allestimento di Hugo De Ana, presentato a Parma, è stato concepito tenendo conto delle esigenze di uno spettacolo (co-prodotto con la Fondazione Arena di Verona) che avrebbe viaggiato a lungo.

In un ambiente unico a forma di globo, coglieva, con le proiezioni, l’ambiguità dell’opera: l’ossessiva giustapposizione di simboli cristiani con quadri violenti e orgiastici (unitamente all’abbondanza di nudi maschili) lo pone continuamente in bilico tra il religioso e il blasfemo. La noia di vivere del protagonista diventava decadenza.



Quella di Berlioz è una lettura particolare del lavoro di Goethe. E’ l’ennui de vivre che porta il protagonista al peccato e al delitto, ed alla sua “dannazione” finale. In Goethe non c’è spazio per un’ennui de vivre così distante dal romanticismo tedesco; non solamente non la percepisce Faust (che si riscatta proprio con la sua vitalità e la sua operosità per il bene comune) ma neanche Werther i cui “dolori” portano al suicidio. In Berlioz, c’è, però, un’interessante novità: l’amore di Faust per la natura (sia nella pianura ungherese della prima parte sia nell’invocazione “Nature, immense, impénétrable et fière” nella quarta parte). Tale amore potrebbe riscattarlo al pari di come in Goethe lo salva il suo lavoro per il resto del genere umano. Ma nel pessimismo di Berlioz non c’è spazio per redenzione. Vedremo come Gilliam tratta questi aspetti.