Viaggiare fa bene agli allestimenti. Quando vidi questa edizione di La Gioconda di Amilcare Ponchielli (su libretto di Arrigo Boito) nell’estate 2005 all’Arena di Verona restai perplesso: il teatro era mezzo vuoto, le voci si sentivano appena e soprattutto le scene e la regia di Pierluigi Pizzi sembravano schiacciate del monumento. La produzione è ora arrivata a Roma (dove si replica sino al 31 ottobre). Viaggia dal 2005 e, dopo il debutto a Verona  ha avuto  tappe a Barcellona, Madrid, Bilbao, e Monte Carlo, se ne prevedono altre. A Roma il truculento intreccio è  reso credibile da una recitazione sobria e una Venezia nebbiosa , macera e decadente, senza Piazze San Marco e Cà d’Oro in cartapesta, stilizzata da essere quasi atemporale, dove dominano varie tonalità di bianco e grigio ed alcuni elementi di rosso. La Gioconda non ha nulla a che vedere con il sorriso ambiguo del ritratto di Leonardo. E’ un grand-guignol tratto da un drammone di Victor Hugo, nella Venezia di fine ‘500 (da cui, peraltro, già Mercadante aveva tratto un’opera- addirittura con lieto fine). La Gioconda è una cantante con mamma cieca a carico: si innamora del proscritto Ezio Grimaldo, a sua volta spasimante (corrisposto) di Laura sposa del Capo dell’Inquisizione, Alvise. La spia Barnaba desidera fare sesso con la cantante e a tal fine esercita ogni pressione (accusando la cieca di stregoneria). Al termine di una complicata vicenda dove vediamo il carnevale di Venezia, una festa (con cadavere) nella Ca’ d’Oro, l’incendio di un brigantino, una morte apparente, un tentativo di avvelenamento, un annegamento ed un suicidio, Laura ed Ezio fuggono verso la libertà mentre tutti gli altri vengono sconfitti dal Fato o dalla cattiveria umana. Per oltre un secolo, l’opera ha mandato il pubblico in visibilio; è il miglior esempio di ‘grand-opéra” padano ossia dei tentativi a fine ottocento di fondere il melodramma verdiano con il ‘grand-opéra’ francese e con un pizzico di sinfonismo e leit-motiv wagneriani; ne furono esponenti Rossi, Marchetti, Gobatti, Gomes, solo Ponchielli è rimasto in repertorio . Ciò è merito di Ponchielli, non di Boito che, sotto falso nome (si vergognava lui raffinatissimo di essere alle prese con un romanzaccio popolare) ne scrisse il libretto. Il maestro cremonese era un fine orchestratore, culturalmente vicino a quella “scapigliatura” milanese che voleva innovare rispetto al melodramma verdiano. Il suo flusso orchestrale continuo risente anche di wagnerismo cromatico ed intriso di leit-motif (alla polenta padana). La scrittura vocale richiede sei grandi voci con registri in grado di spaziare dalle “romanze” e “concertati” tradizionali al declamato para-wagneriano.



 Negli ultimi venti anni, se ne ricordano due buone edizioni a La Scala al Teatro dell’Opera di Roma; non hanno entusiasmato platee, palchi e loggioni. Nel 2004 un allestimento del circuito toscano (peraltro in economia e con una discutibile regia di Micha van Hoecke) è stato poco apprezzato dagli spettatori.  



L’aspetto più significativo dell’edizione che si può vedere ed ascoltare a Roma è la direzione musicale di Roberto Abbado. La Gioconda è erroneamente ritenuta un’opera di “voci” (meglio se con volumi da fare tremare i lampadari) mentre il suo apporto migliore è la complessa e delicata orchestrazione (ad esempio, gli accompagnamenti per arpa e fiati, il gioco astuto degli archi), Abbado e l’orchestra sono stati di grande livello. Di solito, per avere “voci”, i direttori artistici risparmiano sui maestri concertatori e ingaggiano mestieranti a poco prezzo: occorre dare atto ad direttore artistico dell’Opera di Roma, Alessio Vlad, di non essere caduto in tale trappola.



Tra le “voci” il gruppo femminile (Elisabete Matos, Ekaterina Semenchuck, Elisabetta Fiorillo) ha vinto ai punti su quello maschile (Aquiles Machado, Carlo Cigni, Claudio Sgura). Tra le protagoniste femminili, la sera della prima  ha spiccato Ekaterina Semenchuck , mentre Elisabete Matos ha conservato tutte le forze per Suicidio! al quarto atto. Tra i protagonisti maschili, il giovane Claudio Sgura ha spiccato sugli altri per vocalità e recitazione ponendosi (anche grazie alla regia) come vero protagonista dell’opera. Efficace la coreografia di Georghe Iancu nei ballabili del primo e terzo atto.