Com’è possibile che Milano spenda per i suoi dirigenti 13,7 milioni di euro l’anno e Roma quasi il triplo, 31 milioni? Si dirà: ovvio, il numero di dirigenti della prima (132) è meno della metà della seconda  (280). E allora, perché la Capitale ha così tanti dirigenti? Considerando l’incommensurabilità tra i servizi che offre ai cittadini e quelli erogati dal capoluogo meneghino, sembrerebbero cifre tutt’altro che giustificate. Stefano Lucarelli, ricercatore di Economia Politica presso il Dipartimento “Hyman P. Minsky” dell’Università di Bergamo ci spiega che, effettivamente, non lo sono.



Da cosa dipende il divario?

Credo che la prima considerazione da fare sia di buon senso e si basi su un’evidenza empirica: nel momento in cui la coalizione governativa si fonda su un accordo precario tra forze politiche, spesso eterogenee, aumentano necessariamente i costi; le collaborazioni diventano, di fatto un costo per mantenere in piedi la coalizione.



Sia Milano che Roma hanno amministrazioni fondate su coalizioni

Sì, ma il patto su cui è stata costruita la coalizione milanese è il frutto di un processo di confronto democratico trasparente, in cui all’interno della campagna elettorale è stato posto il problema dei costi della politica, che è diventato un elemento decisivo della coalizione; tale elemento è stato sancito dalla scelta di un assessore al Bilancio dichiaratamente vocato al rientro dei costi di questo genere. Non solo: la campagna elettorale di Pisapia si è fondata sulla denuncia delle spese di consulenza pagate con emolumenti fuori mercato dell’amministrazione precedente.



A Roma, invece, cos’è successo?

Anzitutto, il sindaco Alemanno non ha di certo messo al centro della sua campagna la lotta agli sprechi, né il taglio delle consulenze inutili. Inoltre, la sua vittoria non era attesa da lui stesso ed è stata determinata, più che altro, dal forte sentimento di sfiducia nutrito dal centrosinistra nei confronti del suo candidato. La mancata attesa di diventare sindaco ha generato una campagna elettorale giocata su contenuti che hanno prodotto, in seguito, la necessità di costruire un accordo politico con le forze in campo, anche piuttosto eterogenee, in termini di compensi dati a dirigenti indicati da loro. Va anche detto che la liquidità di Roma è maggiore di quella di Milano perché sono state erogate maggiori risorse per Roma Capitale.

Più in generale, è possibile che il compenso di manager e dirigenti pubblici sia affidato alla pura discrezionalità della politica?

Questo, in effetti, è un grosso problema. Eppure, un modo per porvi rimedio ci sarebbe.

Ci dica.

Gran parte degli equilibri di finanza pubblica derivano dai problemi relativi agli acquisti dei titoli di Stato di nuova emissione. Ogni volta che quelli detenuti dagli investitori stranieri sono ceduti in seguito all’aumento della sfiducia nei confronti del nostro Paese, aumentano i tassi di rendimento di quelli di nuova emissione. Ebbene: buona parte dei costi della politica, non solo in termini di manager pubblici, ma anche di stipendio dei parlamentari, potrebbe essere coperta con l’attribuzione di titoli di debito pubblico.  I manager godrebbero pur sempre di titoli che gli garantirebbero un certo tasso d’interesse, diminuirebbe l’effettiva liquidità da dover loro erogare (e, di fatto, si diminuirebbe il tetto salariale), e si ridurrebbe l’esposizione dell’Italia verso i detentori di debito stranieri. Tutto ciò consentirebbe, oltretutto, di abbassare i tassi dei titoli all’emissione.

C’è, infine, il problema della consulenze esterne.

In effetti, c’è una tendenza ingiustificata ad avvalersi di competenze esterne quando si potrebbe tranquillamente usare quelle interne. Penso ai docenti universitari. Sarebbe possibile adoperarli per delle consulenze senza necessariamente pagarli. Assistiamo, invece, a casi di strutture di consulenze private estremamente costose, messe in piedi, magari, da persone che svolgono incarichi a mezzo servizio presso l’università italiana.

 

(Paolo Nessi)