L’unica cosa di cui aver paura è la paura”, diceva il più grande presidente americano del Novecento, Franklin Delano Roosevelt (scriviamolo all’olandese, come egli era di origine). Il leader che contrastò la “grande depressione” dopo il 1929, ai tempi dei grandi romanzi, tragici e epici, di John Steinbeck come “Furore” e “Uomini e topi”, non aveva una ideologia precisa, si definiva semplicemente: “Un democratico e un cristiano e basta”. Non aveva neppure una teoria economica a cui si ispirava scrupolosamente per “salvare il libero mercato”, tagliando le unghie al capitalismo finanziario e al liberismo sfrenato che aveva portato al crollo di Wall Street. Roosevelt si fidava del suo ministro “sociale” Harry Lloyd Hopkins, che salvava famiglie e imprese innanzitutto, prima delle banche. Spronava con delle speranze il popolo americano e non si curava del banchiere JP Morgan, che aveva proibito di pronunciare il nome di Roosevelt in casa sua “perché gli faceva alzare la pressione”. Per fortuna, la storia consegna la schiatta dei Morgan come dei “grandi bancari” e Roosevelt come un grande politico, un presidente che sconfisse la “grande depressione” e, poi, Adolf Hitler. Forse la premessa è un po’ troppo enfatica per inquadrare il “no olimpico” del nostro presidente del Consiglio, Mario Monti, e del suo “governo di tecnici”. Ce ne scusiamo. Ma il metodo di affrontare le crisi con la paura, con i tagli e ritagli di bilancio, senza osare di uscire minimamente dal proprio orto di casa, imposto magari dai “grandi burocrati” europei, ci ha ricordato quel periodo molto più tribolato e i protagonisti di quel tempo. Si dice che le Olimpiadi siano un’occasione, tante volte sprecata come è stato ad Atene. Si pensa, magari guardando ai sondaggi, che gli italiani hanno fatto sacrifici in questi mesi e che non si possono permettere di organizzare un’Olimpiade. E poi ci sono i precedenti italiani di “sprechi e corruzione”. Ma si dimenticano ad esempio, Cortina, Roma 1960, la recentissima Olimpiade invernale di Torino. E tante altre Olimpiadi che hanno smosso positivamente le economie di tanti Paesi. La signora Angela Merkel, che è cresciuta e ha fatto i suoi studi nella Germania Democratica di “liberal” come Walter Ulbricht e Eric Honecker, ci sta insegnando il valore del risparmio, del rigore e della penitenza.



Lei deve esserci abituata in quel regime cupo di Pankow, dove pure c’erano finanzieri abilissimi che avevano creato “l’area KoKo”, sotto la regia di quell’allora giovane imbroglione di Alexander Shalck Gololodkowsky detto “Dicke Alex”, che procurava soldi per sé, per i burocrati e soprattutto per la Sed, il Partito socialista unificato della Germania orientale. Lasciando che la situazione europea marcisca, la signora sta rifinanziando la Germania a costo zero, gli altri devono fare i salti mortali con i bilanci di casa. E noi, scrupolosi come ragionieri del Catasto, zelanti come i travet del Piemonte Sabaudo, ci allineiamo ai diktat della versione in gonnella di “Dicke Alex”. Complimenti vivissimi al nostro “consiglio di facoltà” insediato a Palazzo Chigi. Non possiamo nemmeno immaginare che la testa teutonica della signora Merkel abbia potuto solamente sfogliare lo studio proposto da un grande economista come Marco Fortis, insieme ad altri grandi economisti, con i costi e i vantaggi che avrebbero portato le Olimpiadi romane del 2020. La spesa statale era di 4,7 miliardi, rifinanziata da un allargamento del gettito fiscale. Ma ci sarebbero stati posti di lavoro (quasi trentamila in più), un ammodernamento infrastrutturale e della stessa economia reale per il centro sud. Ci sentiamo anche di condividere quello che ha detto il presidente del Comitato olimpico italiano, Giovanni Petrucci. In sostanza: se l’Italia non è in grado nemmeno, nell’arco di otto anni, di affrontare una simile spesa è meglio chiudere bottega. Forse è questo che vuole il “governo dei professori”. Non rischiare nulla, lasciare le cose come stanno, con “lenzuolate” di liberalizzazioni del “menga” e di semplificazioni che fanno morir dal ridere.



Il tutto purché restino intatti, e completamente irrisolti, i veri problemi del Paese. La crescita, attraverso investimenti e ovviamente rischi, può aspettare. Tanto l’Italia, nella concezione dei consulenti di Goldman Sachs, come Jim O’Neil (non c’era solo Mario Monti), è un Paese “che ha un po’ di Made in Italy, il calcio e la cucina” (dichiarazione a un Forum di Davos di qualche anno fa), prima della catastrofe finanziaria a cui ha contribuito anche la “benemerita” Goldman Sachs. Si dice che un “governo dei tecnici” in realtà non esista mai. Al massimo può essere solo una “sciagura” come diceva Benedetto Croce. Ma in questo caso ci troviamo solo di fronte a un immobilismo passatista, di chiaro stampo di una certa cultura italiana. Il professor Francesco Forte ricordava ieri le “battaglie” contro la televisione a colori di Ugo La Malfa e quelle di Giuliano Amato contro l’Alta Velocità. Ce ne sono state altre ancora più comiche e grottesche, come quella del vecchio Pci contro l’Autostrada del Sole. Sono tutte figlie di una cultura azionista e moralista che non ha alcun senso. Non attribuiamo a Monti una vocazione “azionista” in chiave passatista. In questo momento ci sembra solo uno zelante ragioniere al servizio degli euroburocrati, che pensa al suo futuro di senatore a vita, senza aver mai rischiato nulla. Magari sarà ricordato come il “salvatore” dei bilanci italiani, non certo come un leader che infonde coraggio. Quando in Europa gli chiederanno una nuova manovra di 50 miliardi di euro, per ridurre il debito di un ventesimo, aumenti la pressione fiscale, professore, così guardiamo il Festival di Sanremo, pagato con una tassa, che si chiama canone, mangiando patate lesse.



 

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