L’immagine che emerge dai primi cento giorni di governo Monti è quella di una ritrovata sobrietà istituzionale (se si sorvola sulle battute di troppo di qualche ministro), una sintonia con il Quirinale pressoché totale, ma soprattutto grande competenza, serietà ed efficienza.
I giornali tengono la linea, la satira non punge più, al massimo si limita a qualche buffetto su un esecutivo giudicato eccessivamente grigio e serioso.
Eppure la vicenda delle Olimpiadi 2020 negate alla Capitale ha lasciato intravvedere uno spaccato preoccupante, come se gli ingranaggi del potere non fossero quel meccanismo perfetto che viene descritto dalla grande stampa.



Da un lato Monti e i suoi ministri tecnici, piombati come marziani nelle stanze dei bottoni, spesso avulsi dai riti romani e poco inclini al gioco di squadra. Un gradino più sotto i sottosegretari, nel difficile compito di ufficiali di collegamento tra i professori e i partiti “spodestati”. Poi la burocrazia di Stato, immutabile e affrancatasi negli anni dalla politica. Dall’alto il Quirinale a sorvegliare su quello che i più autorevoli commentatori chiamano il “governo del Presidente”. Ad attendere il verdetto su Roma 2020, più come spettatori che come protagonisti, il Campidoglio e i massimi vertici dello sport tricolore. («Sembravamo una delegazione di tassisti ricevuti a Palazzo Chigi per le liberalizzazioni… All’estero ridono di noi» ha dichiarato Mario Pescante, annunciando le sue dimissioni da Vicepresidente vicario del Comitato olimpico internazionale).



Cinque livelli di potere che nella partita dei Giochi olimpici sembrano essersi mossi autonomamente, a compartimenti stagni, rendendo più difficile la ricostruzione delle motivazioni e delle pressioni a cui è stato sottoposto il governo, ma soprattutto il premier.
Ad ogni modo, dai giornali nazionali, di centrodestra e di centrosinistra, è giunto l’unanime applauso. Chi, come i direttori dei quotidiani romani, ha criticato la rinuncia dell’esecutivo è stato invece velocemente liquidato come “amico dei palazzinari”. Quel che resta dei partiti si è riallineato in fretta, lasciando solo lo sconfitto sindaco Alemanno (già sommerso dalla neve), se si esclude qualche voce fuori dal coro come quella dell’ex primo cittadino di Torino, Sergio Chiamparino, che ha ricordato lo straordinario impatto dei Giochi del 2006 sul capoluogo piemontese. 



Scaricare la responsabilità di questa scelta sulla relazione della Commissione di compatibilità economica Fortis-Napolitano (Giulio, figlio del Capo dello Stato, ma soprattutto stimato docente universitario) a questo punto è però un’operazione piuttosto complicata. Non solo perché quello studio (realizzato in tempi record con la modellizzazione di Prometeia, autorevole agenzia di area prodiana) si limitava a evidenziare i pro e i contro di un evento di tali proporzioni, lasciando all’esecutivo il giudizio politico finale. Ma anche per il fatto che tra le righe non poteva sfuggire una chiara indicazione favorevole. Ogni sfida ha i suoi rischi, ma in questo caso il principale ostacolo indicato nel documento non era di natura economica, ma finanziaria. Accettarla avrebbe richiesto perciò uno sforzo più comunicativo che di “lacrime e sangue”.

La scelta che il premier avrebbe dovuto prendere analizzando il testo presentatogli  durante le vacanze natalizie, in estrema sintesi infatti era: scommettere sui benefici di lungo periodo (l’impatto virtuoso sul Pil e sul gettito erariale che si sarebbe verificato intorno e oltre il 2020) che avrebbero fatto, in buona parte, rientrare lo Stato della spesa di 4,7 miliardi di euro nel triennio 2015-2018? O scegliere una linea prudenziale, al riparo dalle possibili critiche dei suoi successori riguardo ai possibili scandali e ritardi che avrebbero potuto far lievitare le spese? 

La decisione ormai è agli atti, anche se il Cio aveva lasciato trapelare la sua preferenza nei confronti di Roma, che a differenza dei suoi contendenti aveva un progetto convincente e degli impianti sportivi da modernizzare più che da inventare (Tokyo e Istanbul, ad esempio, non potranno certo essere due ipotesi improntate alla sobrietà). Non solo, anche alcuni ministri avevano confidato in forma anonima di essere favorevoli alla candidatura della Capitale, su cui nemmeno il Colle non aveva preclusioni.

Cosa ha spinto allora Mario Monti, che di sicuro non ha lo sport tra le sue principali passioni, a decidere in maniera autonoma per il no? Tra i partiti di maggioranza serpeggia il sospetto che abbiano pesato le minacce del Fondo Monetario e della Bce che ci avrebbero potuto bollare come irresponsabili, scatenando i giochi speculativi delle agenzie di rating.
I più informati parlano però di una pista tedesca, per certi versi ancora più inquietante. Angela Merkel avrebbe infatti fatto chiesto a Monti, attraverso il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero, di escludere Roma dalla gara, in favore di Istanbul su cui la Germania sta fortemente scommettendo.
D’altronde, nessuno aveva garantito che il “commissariamento” avrebbe riguardato solo i partiti…

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