“Madama Butterfly” viene chiamata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto però attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco che Puccini vide probabilmente al “Lirico” di Milano (non a Londra, come dicono le leggende). Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia (molto vicina all’assestamento definitivo nel 1906). In effetti, nella concezione modernissima di Puccini (molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri), sotto l’aspetto drammaturgico e musicale “Butterfly” è divisa in due parti molto distinte: la prima da commedia borghese (molto poco “giapponese”, cugina anzi delle commedie borghesi di inizio Novecento in quanto anche con brevi scene “buffe”), la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale (tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle- quindi una vera e propria “tragedia”). Dal contrasto (soprattutto musicale) tra la prima e la seconda parte nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse (magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte). Il Teatro dell’Opera di Roma, dove è in scena fino al 28 febbraio (per poi andare al “Massimo” di Palermo che la coproduce, fa quindi benissimo a presentare il lavoro in due parti, come è d’altronde prassi nei maggiori teatri stranieri.



Sotto molti punti di vista, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck; tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella sala da tè della piccola città di Brno e avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno capolavori assoluti del Novecento. Il merito principale dell’esecuzione del Teatro dell’Opera di Roma è l’aver colto tutta la modernità di “Butterfly”. Spetta in primo luogo a Pinchas Steinberg che ha un orecchio fino per la musica contemporaneo: da eccellente concertatore, scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista e universale, della seconda; l’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali ed americane ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Pochi sanno infatti che in “Butterfly” ci sono circa 50 leit motive intrecciati in una maniera che ricorda più Debussy che Wagner.



La direzione musicale di Pinchas Steinberg sottolinea la modernità di una partitura tra le più innovative di Puccini, specialmente nell’intermezzo tra i due quadri della seconda parte, e tiene bene l’equilibrio tra buca e voci. Daniela Dessì è una veterana del ruolo e sfoggia grande abilità tecnica. Il giovane siberiano Alexey Dolgov è una vera scoperta per la qualità del timbro e del fraseggio. Ottimo il coro. Buoni gli altri.
La vera novità è che dopo trent’anni il Teatro dell’ Opera di Roma ha mandato  in pensione l’allestimento di “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini curata da Aldo Trionfo, una messa in scena che enfatizzava gli aspetti più decisamente drammatici, puntando sull’azione e inserendo, soprattutto nella prima parte, elementi folkloristici. Una lettura molto “popolare” ma datata . La sostituisce con il quasi debutto ( nella lirica- ha in passato diretto due atti unici al Festival di Spoleto di cui sovrintendente) di un regista cinematografico e teatrale, Giorgio Ferrara. La regia (di Ferrara), le scene (di Gianni Quaranta, Premio Oscar per “Camera con Vista” di James Ivory) ed i costumi (di Maurizio Galante, della scuola di Capucci) prendono alla lettera la dicitura “tragedia giapponese” utilizzata da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per il libretto. Una scena articolata su quinte dorate ed un fondale marino, costumi ispirati a come nell’Europa e negli Usa del primo Novecento si immaginava l’abbigliamento nel Sol Levante, una grande cannoniera stilizzata per indicare il ritorno del protagonista, B.F. Pinkerton, a Nagasaki. In questo quadro tra il liberty ed il visionario, l’azione segue lo stile stilizzato del teatro giapponese; quindi ieratica, elegante ma quasi fredda rispetto alle convezioni del melodramma. Il pubblico di Roma ha gradito.

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