La sicurezza è diventato uno dei problemi cruciali di una Roma dove, sino a qualche anno fa, si tenevano aperte le porte delle case per l’intera giornata. I sondaggi condotti convergono nel sostenere che la sicurezza è ormai la principale preoccupazione dei romani. Il Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri ha, senza dubbio, le migliori intenzioni e sottolinea correttamente che i più poveri ed i più deboli sono anche i più indifesi nei confronti della criminalità dilagante – tesi documentata ma coraggiosa in un Paese dove a sinistra ci si immagina un mondo pieno di Robin Hood (che rubano ai ricchi per dare ai poveri) e dove sovente la comprensione per le sventure socio-antropologiche del colpevole superano la commiserazione nei confronti della vittima.
I “patti per la sicurezza” sono come somministrare l’aspirina ad un ammalato che ha urgente bisogno di un intervento chirurgico. Da parte dello Stato centrale quello per Roma contempla, principalmente, un maggior impegno immediato a fornire forze dell’ordine e la promessa di interventi per l’edilizia pubblica (case popolari per immigrati e rom); nel contempo, Roma Capitale deve provvedere a creare centri di solidarietà , a più frequenti pattugliamenti da parte dei vigili, ed a decentrare enclave etniche di varie forme e guise (come le Chinatown che si stanno formando in varie città). Sono note a tutti le ristrettezze della finanza pubblica, ancora più rigide in seguito al nuovo “patto europeo”. Sono domande a cui devono rispondere il Presidente del Consiglio ed il Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze. Non il Ministro dell’Interno.
Al Viminale, però, si potrebbero utilizzare le lezioni di alcuni casi in cui gli interventi per la sicurezza hanno avuto successo al fine di rendere più efficaci i “patti per la sicurezza”? Due ne vengano immediatamente alla mente: la riduzione della criminalità a New York negli anni in cui era sindaco Rudolph Giuliani ed il modo in cui nell’estate 2003 Nicolas Sarkozy (allora Ministro dell’Interno della Francia) ha sedato i moti suscitati dai cosiddetti “intermittents” (lavoratori dei media, delle arti e dello spettacolo a cui venivano ridotte le elevate indennità di disoccupazione di cui godevano per sei mesi l’anno – quando di solito lavoravano in nero).
La ricetta è identica: tolleranza zero (accompagnata da una rete di tutele sociali soltanto per coloro effettivamente ai livelli di sussistenza). Un saggio di un economista di nazionalità cinese in servizio all’ufficio studi del Fondo Monetario (Imf working paper n. 07/36) ci ricorda, sulla base di un’analisi comparata di 19 Paesi, come sia difficile realizzare il modello di “flexsicurity” attuato in Danimarca; dati dell’Interpol, in aggiunta, ci dicono che anche nel piccolo e solitamente pacioso Regno di Amleto il tasso di criminalità è aumentato notevolmente tra il 1995 ed il 2000 ( del 250% gli omicidi, del 50% i furti, del 10% i casi di violenza carnale) quando, in tandem con la “flexsecurity”, è stato introdotto il principio di “tolleranza zero” , reso più rigoroso dopo il ritorno del centro destra al Governo nel 2005. L’ultimo libro di Arno Tausch (un sociologo dell’Università di Innsbruck noto per essere filo-islamico) sottolinea, sulla base di una ricca analisi quantitativa, come una politica di “tolleranza zero” avrebbe il supporto di quelli che chiama i “mussulmani calvinisti”, i più disposti ad integrarsi nelle società d’immigrazione ed a contribuire alla crescita economica delle loro famiglie e dei Paesi di accoglienza.
Naturalmente la “tolleranza zero” deve essere accompagnata con una lotta indefessa delle autorità e delle forze dell’ordine nei confronti delle cosche di criminalità organizzata in guerra guerreggiata per conquistare il mercato della droga nella capitale.