L’accordo raggiunto con il ministro Corrado Passera sul futuro di Alcoa rinvia, ma non scaccia il fantasma della cassa integrazione. La multinazionale statunitense ha accettato di mantenere attivo lo stabilimento di Portovesme, in provincia di Carbonia-Iglesias, fino al 31 ottobre. In assenza di manifestazioni di interesse da parte di altre società, i lavoratori andranno in cassa integrazione per un anno dal primo gennaio 2013, prorogabile di un altro anno. Per ora sarebbero quattro le altre offerte sul mercato, anche se una soltanto sarebbe effettivamente solida. Come sottolinea Andrea Giuricin, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, “quello di Alcoa è solo uno dei tanti esempi di multinazionali attratte in Italia con promesse e sussidi, e che poi si trovano di fronte a una realtà totalmente bloccata. Tasse troppo elevate, burocrazia e mancanza di flessibilità del mercato del lavoro fanno sì che nel nostro Paese non ci siano le condizioni giuste per investire”.
Giuricin, per quale motivo la produzione di alluminio nello stabilimento di Portovesme non è più conveniente per Alcoa?
La produzione di alluminio, come quella di tutti i materiali relativamente semplici, si sta trasferendo sempre di più verso Paesi in via di sviluppo, nei quali la produzione costa di meno. Occorre trovare il giusto equilibrio tra i costi di produzione e la necessità che gli stabilimenti si trovino vicino a dove si vende. Se i costi di trasporto sono molto elevati, non conviene produrre in Cina e portare quindi i manufatti in Europa. Un esempio tipico è quello del cemento, che però è molto più pesante rispetto all’alluminio. La produzione di quest’ultimo, che è un materiale molto più leggero, è spesso delocalizzata in altri Paesi dell’Unione europea, del Nord Africa e del Medio Oriente. Per esempio la Turchia si trova vicino al mercato europeo e dove il costo del lavoro è molto più basso. Emblematico è il caso di Renault, che per le stesse ragioni ha trasferito un grande impianto produttivo in Marocco. Nel Paese nordafricano la tassazione per esempio è all’8%, contro il 30% e oltre di Italia e Francia.
Oltre alle tasse, quali altri fattori scoraggiano le imprese dall’investire in Italia?
Le grandi multinazionali in Italia incontrano diverse difficoltà, e non è un caso che gli investimenti diretti esteri nel nostro Paese siano molto bassi. A scoraggiare le imprese straniere sono soprattutto la burocrazia e la tassazione sul lavoro, che è troppo elevata. Non solo perché riduce il profitto che un’azienda può produrre in Italia, ma soprattutto perché la tassazione sul costo del lavoro è pari a un raddoppio del costo netto del lavoratore. Se io come dipendente guadagno cento, l’azienda molto probabilmente sosterrà un costo pari a 210/220. E’ quindi un problema più generale, che non riguarda soltanto l’Alcoa.
Ma Alcoa, nel momento in cui ha deciso di investire in Italia, non sapeva già che avrebbe incontrato questi problemi?
Le multinazionali straniere possono compiere degli investimenti sbagliati, magari per il fatto di non tenere conto della vischiosità del sistema italiano, caratterizzato da una forte resistenza al cambiamento. Prima di realizzare l’investimento pensavano di potere limitare questi problemi e in realtà poi si sono ritrovati di fronte a una realtà totalmente bloccata che fa sì che l’azienda non riesca a essere agile o flessibile come vorrebbe. Inoltre diverse imprese straniere sono attirate nel nostro Paese attraverso dei sussidi pubblici e delle promesse, per esempio di evitare di complicare loro la vita con la burocrazia. Spesso poi alla promessa non seguono i fatti, e quindi l’impresa non riesce più a trovare quella flessibilità e quel mercato in grado di funzionare bene per sviluppare il proprio business.
Da quali fattori dipende la possibilità di un rilancio del sito produttivo di Portovesme attraverso manifestazioni di interesse da parte di altre imprese?
Il sito di Portovesme, come diversi settori produttivi del nostro Paese, possono ancora avere un’attrattività. Il problema è che purtroppo i nostri politici o il nostro sistema economico non sono in grado di mettere quelle basi per creare le condizioni affinché il business si sviluppi. Con tutte le restrizioni che esistono, dal mondo del lavoro alla burocrazia e alla tassazione, anche un business che potrebbe essere profittevole non lo diventa più perché esiste un elevato rischio di vischiosità del nostro sistema-Paese.
Che cosa può fare la politica per risolvere questi problemi?
Bisogna imparare a prevenire, creando le condizioni giuste affinché le imprese possano investire. Si tratta di interventi strutturali, come l’abolizione dell’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro. Le imprese straniere non vengono a investire in Italia perché non hanno la certezza del diritto del lavoro. Temono di non riuscire a essere flessibili, e mentre la produzione lo richiede come condizione indispensabile, sia quando si quando si tratta di licenziare sia quando si deve assumere.
(Pietro Vernizzi)