«L’allontanamento dei centurioni dal Colosseo non cambia assolutamente niente della città e non credo che Roma perda qualcosa di rilevante. E’ stata tolta una nota in più di colore, certo, ma non si tratta di un oltraggio nei confronti di Roma. Inoltre, anche i centurioni avevano ormai perso completamente quella romanità, quello spirito borgataro che li avrebbe resi certamente più interessanti, trasformandosi invece in una sorta di lobbisti gonfi di palestra, quindi non credo che rinunciare a loro possa dispiacere a troppe persone». Aurelio Picca non è sicuramente uno che ha peli sulla lingua. Dice quello che pensa, e lo dice per un motivo, anche se la sua voce trasuda malinconia. Scrittore e poeta, Picca porta Roma nel cuore da sempre, e nelle sue parole si coglie distintamente la malinconia di una persona che a suo tempo ha visto la città in un certo modo, e che sa che non sarà mai più così. Forse anche per questo ha scelto di andare a vivere fuori, in campagna, ma comunque a pochi chilometri dalla capitale, come per tenerla sempre lì, a portata di vista. IlSussidiario.net lo ha contattato non solo per parlare dei centurioni che Maria Rosa Barbera, sovrintendente ai beni archeologici di Roma, ha deciso di allontanare per sempre dal Colosseo e dai maggiori monumenti capitolini, ma per parlare di Roma e dei romani, cittadini legati certamente in modo diverso a queste strade, a questi palazzi e a questi quartieri.
Aurelio Picca, che impressione le fa la Roma del 2000?
Trovo che Roma sia sempre più diversa, come se le avessero passato sopra una mano di colla, di vernice, che la nasconde e non la mostra più per come è realmente. L’unico elemento di Roma che ancora si riconosce è un aspetto più che altro interiore, cioè quello che si può avvertire intorno alle 20.
Che succede a quell’ora?
A quell’ora, quando guardi la città, ti assale una malinconia disperata. E’ il momento in cui anche i romani, come buoni paesani, si ritirano a cena o nei loro antri, e la città curiosamente si riavvolge di fantasmi del passato e si riappropria di sé stessa. C’è un momento in cui tutti fuggono a casa, e sembra che Roma torni ad essere quella dei Papi, delle congiure e dell’aristocrazia guelfa nera. C’è un momento in cui Roma rivive di forza propria, ma dopo quell’ora ricomincia il tram tram della movida, dei locali, anche se in fase calante per una cosa chiamata crisi.
Cosa pensa di questa crisi?
E’ una crisi di facciata, e credo che i frequentatori della “Roma da bere” in questo momento si stiano semplicemente nascondendo, ma di certo non sono spariti. Un’altra cosa che sto notando in questo periodo, camminando per del Babuino o via Veneto, è che sempre più commessi e commesse si concentrano su ricchi turisti stranieri, mentre gli italiani neanche li guardano più in faccia. I russi, per fare un esempio, hanno una sorta di corsia preferenziale, mentre gli altri aspettano, come se non avessero i soldi per fare acquisti. Questa è una cosa molto curiosa che non denota come può sembrare un’apertura internazionale della città, ma anzi un provincialismo di ritorno che io contesto e detesto. Osservo Roma, dal tassista alla commessa, fino al parrucchiere, e la vedo sempre più inchinata al turista non solo ricco, ma anche scemo e selvaggio che arriva e lascia qualche euro.
Lei che ricordi ha della città?
Una volta Sergio Citi (attore e regista romano ndr) mi disse: “Aurelio, Roma è esistita fino al 1957, fino a quando sei nato tu”. Ho avuto infatti la fortuna e il grande privilegio di aver visto la città in quegli anni, che mostravano la vera luce di Roma: ho visto le strade vuote, il Quadraro ancora abitato, i panni stesi di Don Bosco, gli interni dei Parioli come erano prima, i Burattini del Gianicolo come non esistono più, le prime discoteche a Monte Mario e la frequentazione della Rai di via Teulada. Ho avuto la fortuna quindi di vedere quella Roma che ha vissuto fino ai primissimi anni Sessanta, mentre dopo è cambiata, in qualche modo anche finita. Ma non solo Roma, perché dopo quegli anni è come se fosse finita anche la stessa innocenza dell’Italia. Il mio ultimo romanzo si intitola “Addio”: un addio sentimentale, interiore, un addio alla giovinezza di Roma e dell’Italia.
Cosa è diventata successivamente la città?
L’unica cosa che Roma ha in comune con quello che poi è diventata negli anni Settanta è la chiusura all’interno dei suoi quartieri: oggi difficilmente un abitante di Prati è mai stato a via Genzano a San Giovanni e probabilmente non sa neanche cos’è il Mandrione. Eppure la città, nel suo essere blindata nei quartieri, aveva un suo fascino livido e quasi funereo, mentre oggi ha perso anche quello, che era comunque un carattere forte e distintivo. Oggi Roma è inqualificabile, e proprio per questo prima dicevo che è come se le avessero passato sopra una mano di colla o di vernice, che ha coperto le cose e ha uniformato tutto.
(Claudio Perlini)