Ho cominciato a frequentare don Giacomo Tantardini con periodica assiduità dai primissimi anni Novanta, senza più smettere d’incontrarlo. Arrivavo da lui carico delle domande che le vicissitudini della vita solitamente provocano (“cosa fare?”, “come decidere?”, “che comportamento assumere?”, ecc.); tuttavia, finiva che non gliene rivolgevo nemmeno una: guardando i suoi occhi vispi e commossi, vedendolo pregare, partecipando ai suoi silenzi, ascoltando le sue parole, le asprezze delle mie preoccupazioni ben presto si rasserenavano e tutto mi pareva diventare più facile, quasi come quando Peguy, arrivato in pellegrinaggio a Chartres, constatava: “Ecco il luogo ove tutto resta più facile”.
Altre volte, invece, necessitando di un suo giudizio, m’imponevo di porgli il problema per me al momento insormontabile. Specialmente nei primi anni, però, la risposta mi pareva sempre elusiva e comunque non esauriente; dopo avermi ascoltato e dato dei piccoli suggerimenti, la sua insistenza rimaneva un’altra: “Inginocchiati e dì un’Ave Maria alla Madonna e un Gloria al Padre a San Giuseppe”. E così ho imparato a inginocchiarmi e con il tempo ho iniziato a capire.
Una volta, tanti anni dopo, alla vigilia del mio matrimonio, lo ringraziai per l’insegnamento ricevuto e aggiunsi che, forse, era stata propria quella la lezione più grande che era riuscito a offrire ai tanti che aveva incontrato, o che lo guardavano con interesse. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime e mi rispose d’impeto: “È proprio così! Diversamente avrei fondato una corrente di CL; ma non è questo che interessa, non è questo!”.
Veniva in mente una lezione di don Giussani di alcuni anni addietro sul ruolo del maestro: “Un maestro impedisce che la drammaticità sia arrestata in te e stabilisce una lotta dentro di te e l’ambiente, in nome del Destino e, perciò, in forza di una drammaticità che egli per primo ha scoperto e vive. Il maestro sempre commuove e sommuove. Muove le varie parti, di cui sei composto, e una la getta contro l’altra, e tu capisci che le cose non sono ancora a posto. Allora chiedi: «Ma come si fa a mettere le cose a posto?» E il maestro risponde: «Non lo so» – perché questa è l’ultima risposta che si può dare – «lo sa soltanto Iddio, lo sa soltanto Cristo! Perciò mettiamoci in coda, seguiamolo, guardiamolo, stiamo lì attenti e cerchiamo di mettere a posto come siamo capaci»”.
E così, di commozione in commozione, si sono succeduti gli eventi della vita, secondo una linea che, iniziando a guardare con i suoi occhi, diveniva motivo di gratitudine e di silenzio (riecheggiando il brano, caro a don Giussani, del monaco eremita Laurentius: “Mi fu detto: tutto deve essere accolto senza parole e trattenuto nel silenzio. Allora mi accorsi che forse tutta la mia esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era accaduto. E il Tuo ricordo mi riempie di silenzio”).
Al contempo, proprio guardando quel suo sguardo, così attento a non aggiungere nulla a quanto suggerito dalla realtà (“Pietro e il suo successore hanno imparato a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del Signore. Hanno imparato che a noi è dato solo riconoscere e seguire quello che il Signore opera”), tante sue insistenze divenivano comprensibili. Risultavano chiare, ad esempio, le ragioni della sua ammirazione verso Montini (“L’arcivescovo che con discernimento evangelico aveva per primo riconosciuto «i frutti buoni» dell’apostolato di Giussani tra gli studenti”) e verso De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti (i quali, ripetendo le parole di Giussani, fra i cattolici in politica erano stati quelli più “attenti al bene comune con competenza reale e adeguata”).
Ricordo la commozione che gli provocò il testo di una lettera che avevo trovato in un libro di storia costituzionale, dove un testimone raccontava il modo mirabile e (apparentemente) casuale con cui era stato formulato il testo dell’art. 7 della Costituzione (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”). Era scritto nella lettera: “ricordi quella mattina dell’autunno, credo, 1946? In casa Montini, nella biblioteca Montini, La Pira prende un libro: lo apre: viene fuori il testo della Immortale Dei (se non sbaglio) di Leone XIII nel punto ove si distinguono le due sfere Chiesa-Stato. Il testo latino viene tradotto in italiano da Monsignor Montini: il testo italiano viene poi presentato a Togliatti (che lo approva): e diventa così l’art. 7 della Costituzione italiana”.
Tutto nacque così – aggiungeva lui – dal sano realismo di quegli uomini e dalla consapevolezza che, per salvaguardare la libertà dell’esperienza cristiana, occorresse tener conto delle condizioni del potere reale e, dunque, della necessità di conseguire quel compromesso fra le grandi tradizioni culturali, popolari ed economiche del Paese, il cui riconoscimento costituzionale ha poi consentito la pace sociale e lo sviluppo economico.
Per contro, proprio una simile consapevolezza lo induceva a giudicare con scetticismo l’esperienza della Seconda Repubblica; faceva suo quel brano del “De civitate Dei” (V, 17), in cui S. Agostino lamenta come i Romani, se avessero esteso le loro leggi ai popoli assoggettati, realizzando una transizione attraverso un compromesso, anziché compiendo grandi stragi di guerra, avrebbero raggiunto un esito migliore, anche se non ci sarebbe stata alcuna gloria per chi invece avrebbe potuto proclamarsi vincitore.
Nasceva, insomma, dalla gratitudine per l’esperienza di pace sociale, sviluppo economico e libertà religiosa sperimentata dal Paese, quell’ammirazione provata da don Giacomo verso la politica di rispetto della realtà delle cose posta in essere da Andreotti (che ripete di sé: “Ho sempre pensato che i ministri più meritevoli siano quelli che invece di affannarsi nell’ennesima riforma cercano di far funzionare con umiltà il meccanismo che c’è”).
Ammirazione, del resto, ricambiata dall’anziano statista; basti pensare al giudizio reso da quest’ultimo in uno degli ultimi editoriali di 30 Giorni, in cui si legge: “Tornando a don Giussani, l’altra cosa che mi ha permesso di capirlo meglio è stato partecipare molte volte in questi anni alla messa nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura che celebra don Giacomo Tantardini, un sacerdote che ha sempre manifestato nei confronti di don Giussani ammirazione e devozione; presentandolo sempre come il punto di riferimento al quale guardare. Mi è capitato molte volte, da quando sono diventato direttore di 30 Giorni, di partecipare a queste messe del sabato sera, ai battesimi, alle cresime, e ogni volta ho visto qualcosa di unico: studenti e lavoratori, giovani sposi con i bambini per mano che vanno insieme a ricevere la comunione, una cosa veramente paradisiaca. Mi sono chiesto, anche grazie a una fortunata copertina di 30 Giorni del 2008 dedicata a Lourdes, se non fosse poi questo il futuro del cristianesimo, il modello del laicato per i prossimi anni. Di certo mi ha permesso di comprendere ed entrare più in sintonia con le parole ascoltate in passato da don Giussani”.
Ed era proprio così: ascoltare don Giacomo aiutava a comprendere meglio don Giussani. Le parole del primo muovevano da una gratitudine commossa verso il secondo, che gli proveniva anche dall’essersi sentito particolarmente amato. Sicché, quando raccontava di Pietro e Giovanni e di come Giovanni fosse stato il più amato dal Signore, sembrava quasi che raccontasse di sé e della predilezione che Giussani gli aveva portato (“Pietro vuole bene a Gesù più di quanto gliene vuole Giovanni. Ma Giovanni è più amato dal Signore. E si corre più veloci non perché si ama, ma perché si è amati. «Meliorem Petrum, feliciorem Ioannem» dice sant’Agostino. Pietro è più buono, ma Giovanni è più felice. Perché la felicità non nasce neppure dal nostro essere buoni, la felicità nasce nell’essere prediletti. Pietro è più buono di Giovanni, ma Giovanni, essendo più amato, è più felice, ed essendo più felice corre di più”).
E così, diventano ancora più comprensibili e attuali le ultime parole che don Giacomo scrisse nel ricordo di don Giussani: “Giussani è morto il 22 febbraio, giorno in cui la liturgia romana ricordava la Cattedra di san Pietro. Nel breviario si leggevano queste parole di papa Leone Magno: «Le porte degli inferi non possono impedire questo riconoscimento della fede che sfugge anche ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo». Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche della terra”.