Molte volte ascoltando “Cavalleria Rusticana” di Mascagni – spesso, infelicemente, accoppiata a “Piagliacci” di Leoncavallo – ci si chiede perché la sua prima rappresentazione a Roma il 17 maggio 1890 travolse il teatro in musica italiano: Ed azzerò di un sol colpo tanto gli epigoni del melodramma verdiano (di oggi non si rappresenta quasi più nulla) quanto il “grandopéra” padano (di cui ha resistito agli anni unicamente “Giocanda” di Ponchielli – e neanche tanto bene). In effetti, si tratta spesso di allestimenti in teatri estivi all’aperto dove si gioca sulla notorietà dell’opera, sul suo carattere popolare e sanguigno, sulla facilità di metterla in scena con pochi interpreti (nonché con un’orchestra rimediata e spesso ridotta in organico rispetto all’originale).
Ascoltarla (senza “Pagliacci”) alla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica a Roma – le repliche terminano il 3 aprile – fa comprendere come fu un vero tsunami nel teatro in musica dell’epoca e come ancora oggi, se ben eseguita, è un capolavoro assoluto. Il programma di sala parla di “versione da concerto”. In effetti non è un allestimento semi-scenico: i cinque cantati sono in abito da sera ma recitano (uno solo ha la partitura in mano) come se fossero su un palcoscenico. In francese, si parlerebbe di “mise en éspace”- qualcosa di meno di una versione scenica ma di più di un semplice concerto. L’organico orchestrale è vasto, come lo richiedeva Mascagni (il quale – non dimentichiamolo- anche se sbarcava, male, il lunario facendo il capo della banda comunale di Bisceglie, aveva studiato la partitura de L’Anello del Nibelungo di Wagner).
Il coro, diretto da Ciro Visco, è al completo nei banchi dietro l’orchestra. Dall’attacco della breve introduzione sentiamo che siamo alle prese di un’esecuzione speciale. Ha la bacchetta James Conlon; lo conobbi molto giovani , negli Anni Settanta, quando era stato invitato a dirigere, alla Opera House di Washington, un “Così fan tutte” in traduzione ritmica in inglese. Era ai primi passi ma già si avvertiva che di talento ce ne era tanto- quello vero che si coniuga con semplicità di modi e grande facilità di rapporto. Ha avuto una carriera rapida e brillanta sia negli Usa che in Europa (dove per dieci anni è stato il Direttore principale dell’Opéra di Parigi) e si è specializzato nella musica del Novecento, soprattutto di quei compositori (primus inter pares, Zemlinky) perseguitati dal nazismo. Nelle sue mani “Cavalleria” non è una delle tante opere “veriste”; assume le dimensioni di una tragedia espressionista che non riguarda unicamente un duello per questioni di donne in un paesino della Sicilia ma assume valori universali (la lealtà, la schiettezza, la Fede in Dio).
Dai colori tenui del breve preludio, si passa alla sensualità della canzone detta “la Siciliana”, al grande coro antifonale per la Pasqua , al “largo” del dialogo tra Santuzza e Mamma Lucia , al duetto con toni epocali tra Santuzza e Turiddo al grande sinfonismo dell’intermezzo sino al “parlato” del finale. Una grande lezione di stile. Possibile grazie ad un ottimo cast. Luciana D’Intino è una Santuzza che discende abilmente in tonalità gravi dopo aver toccato acuti da stratosfera. Aleksandr Antonenko (uno dei rari tenori che oggi possa affrontare ruli pesanti come quelli del verdiano “Otello”) un Turiddu generoso con un registro di centro alla Corelli od alla Del Monaco. Elia Zito un Mamma Lucia da manuale. Roberto Frontali un Don Alfio duttile e Marta Vulpi una Lola di agilità.
Sabato 31 marzo erano pieni quasi tutti i 2800 posti della Sala. Lunghe ovazioni al termine dell’esecuzione-