Roma. Stava cercando di mettere a segno l’ennesimo colpo. A bordo di un furgoncino, assieme a due complici, aveva speronato, sabato mattina, la vettura di due gioiellieri che trasportavano, ad una fiera all’estero, 75mila euro di valori. Poi, aveva estratto una pistola. Anche i gioiellieri l’avevano estratta. E avevano sparato, avendo la meglio. Così, Angelo Angelotti, si è ritrovato morto, sull’asfalto di Roma, in largo Guido Buzzelli, nel quartiere di Spinaceto. Così si è conclusa la carriera criminosa del 62enne. Che, di certo, non poteva dirsi un rapinatore qualunque. Fu tra i boss della Banda della Magliana, l’associazione criminale che tra gli anni ’80 e ’90 conquistò Roma. O no? Tanta fama, in realtà, pare immeritata. Mario Morcellini ci spiega perché.



Come ha inciso la Banda della Magliana sul tessuto culturale collettivo romano? Per intenderci: ha avuto implicazioni paragonabili a quelle delle altra mafie italiane?

Ogni confronto con le forme strutturali della criminalità organizzata è attendibile solo letterariamente, non sul piano sociale. L’importanza di quel fenomeno è sorprendentemente emersa a distanza. “In diretta”, quando la Banda era all’apice della sua fortuna, non era così presente allo spirito pubblico. Il massimo della sua visibilità è avvenuto a distanza.



Come valuta, invece, la sua effettiva potenza e capacità organizzativa?

Tutto sommato, rispetto allo sviluppo della criminalità di questi anni, si è trattato di un fenomeno modesto e localizzato, limitato ad un’area caratterizzata da un disordinato sviluppo urbano, una terra di nessuno dimenticata da Dio.

Da dove proviene, quindi, la fama delle vicende della Banda?

Molti scrittori, tra cui alcuni studiosi di Pasolini, se ne sono occupati. Il che ha conferito alla trasposizione letteraria del fenomeno un’importanza decisamente superiore al fenomeno stesso; esso, possiamo dire, ha trovato cantori più importanti di sé.



Si trattava pur sempre di una banda di criminali. Da dove proviene, quindi, il suo successo, anche se postumo?

Gli studiosi e gli operatori del cinema, per definizione, quando scelgono un oggetto devono abbellirlo, con un meccanismo romantico che conferisce ai personaggi di cui parlano connotati epici.

Ma di epico hanno ben poco…

In effetti ho avuto a che fare con studenti desiderosi di fare addirittura la tesi sulla Banda della Magliana; in un caso, anche per il dottorato di ricerca. Ebbene, dopo aver indagato il fenomeno e averlo scandagliato più in profondità, rendendosi conto di cosa si trattava realmente, perdevano intesse. In ogni caso, c’è un elemento che, in particolar modo, ha contribuito ad accrescere l’interesse collettivo per la Banda.

Quale?

La vicenda della sepoltura nella  basilica di Sant’Apollinare a Roma del capo della Banda, Enrico De Pedis, ha fatto sì che attorno al fenomeno si costruisse un alone di sinistro mistero. Tanto più se si pensa a tutte le suggestioni relative alla scomparsa di Emanuela Orlandi e ai presunti legami della sparizione con De Pedis.

Crede che la narrativa recente sulla banda possa contribuire a dare nuova linfa all’attrazione dei giovani rispetto al crimine?

Denunciare pubblicamente un pericolo di emulazione trasferisce un’idea della comunicazione che gli studiosi ricusano. Ovvero, noi non abbiamo prove che dimostrino come un indirizzo della cosmologia dei media sia davvero capace di costruire comportamenti consequenziali.

In ogni caso, crede che se ne parlerà ancora a lungo? 

Gli elementi di fascino e di carisma di questa vicenda si stanno man mano esaurendo. Il fatto che il Vicariato della Diocesi di Roma abbia accettato di trasferire la salma di De Pedis e la morte di un epigono della banda, ucciso da due gioiellieri “qualunque” in circostanze in fondo banali, sembrano volerci dire che tutto cospiri a chiudere per sempre questa brutta pagina della storia italiana.

 

(Paolo Nessi)