Questo è un racconto di fantasia che prende ispirazione da quanto accaduto a Roma, dove Giulio Maira, direttore di neurochirurgia al policlinico Agostino Gemelli, ha deciso di togliere il cognome alla figlia Francesca dopo 38 anni. Nata da una relazione precedente avuta dalla madre con un altro uomo, Francesca non è stata adottata, perché Maira ha sempre affermato che fosse sua figlia naturale. Poi, dopo la separazione dalla mamma di Francesca , avvenuta tre anni fa, il professore ha richiesto la prova del Dna e ha avviato un’azione legale per chiedere il disconoscimento della paternità e togliere il cognome a Francesca. 



Come funziona la memoria? E’ un mistero. La vita tutta è un mistero. Sto cercando di risalire al primo ricordo che ho di mio padre. Proprio lui probabilmente saprebbe rispondere, almeno in parte, alla mia domanda. Come funziona la memoria… il dirigente di uno dei più importanti ospedali di Roma, nonché docente e neurochirurgo di fama internazionale, nonché mio ex padre forse saprebbe rispondermi.



Frastornata dagli ondeggiamenti dell’autobus sento le tempie che pulsano, nella testa si alternano domande senza risposta, ricordi passati e recenti, spezzoni di frasi. “Si tratta di un evidente caso di negazione al diritto dell’identità – erano più o meno queste le parole di Alessandro, il mio infervorato avvocato difensore – il diritto alla propria identità non può subire nessuna limitazione e compressione e si realizza nel rispetto del principio di verità del riconoscimento. Capisci Francesca?”

Io con lo sguardo fisso sul suo pizzetto che andava su e giù annuivo, meno capivo e più cercavo di rassicurare il mio interlocutore. Ma in realtà c’era poco da capire. Quello che era mio padre, il luminare, non era mio padre. Io non ero sua figlia, e lui stava facendo di tutto per cancellare ogni legame togliendomi il cognome. Il problema, che aveva acceso di entusiasmo il mio avvocato perché “un caso così non si è mai visto”, era che lui mi aveva riconosciuta come sua, come generata da lui pur sapendo che non era vero, e ora, dopo quasi quarant’anni, si sentiva in dovere di porre fine a questa ingiustizia. Un’ingiustizia che mi aveva dato un padre, una famiglia, che ora per giustizia mi vuole togliere, negare, cancellare. Ma io non ho altri cognomi, come faccio?



Chissà perché ora mi viene in mente la mia compagna di banco delle medie. Avevamo riempito pagine intere del diario firmando, cercando di creare una nostra personalissima firma, il nostro segno da lasciare nel mondo, il nostro nome. E cognome. Ora devo cancellare, strappare le pagine di quel diario e ricominciare a scrivere? Scrivere cosa poi? Mi dovrò scegliere un cognome nuovo? Quando l’ho chiesto ad Alessandro mi ha detto di non pensarci, che tanto vinciamo, e il mio cognome non me lo toglie nessuno. Non è vero. Me lo ha già tolto, il mio ex padre.

Ora mi viene in mente Romeo e Giulietta. Anche lì una storia di cognomi. Com’era il brano? O Romeo, perché sei tu Romeo, forse una rosa perde il profumo se non la si chiama più rosa? Non è esattamente così, ma il senso è questo. Per trent’anni sono figlia, poi non sono più. Per una vita, la mia vita fino ad oggi sono una “Maira”, poi più niente. Allora le cose tutte sono niente?

Mi gira la testa.

Un cognome non è solo una vicenda burocratica.

Un altro ricordo, in campagna, dalla nonna. Mi aveva mandato nella cascina poco distante a prendere tre uova. Non era un grande incarico, ma in città non si può certo mandare una bimbetta di cinque anni a comprare le uova, invece lì era diverso. Mi ricordo la paura che mi prese quando varcai il portone e mi trovai dinanzi un omone che mi guardava storto. Per fortuna uscì una giovane donna da una porticina laterale, mi chiese “chi sei?” “Francesca” “Caruccia. Ma chi sei? A chi appartieni?”

A chi appartengo? Era un modo per sapere chi fosse la mia famiglia, il mio cognome. A nessuno. Non appartengo, quindi non sono.

Vengo strappata dai miei pensieri dal conducente della 48, che dallo sguardo e dal tono capisco che mi sta parlando da un po’. Mi alzo, borbotto qualche scusa, scendo. Cerco di capire dove sono e alzo lo sguardo, sul muro della piscina proprio di fianco al capolinea una calligrafia incerta ha scritto con la vernice nera “grazie che esisti”.

“Prego – dico sottovoce mentre dietro di me riparte l’autobus diretto al deposito – anzi, grazie a te”.

Caro papà, puoi togliermi il cognome, puoi cancellare dai registri il tuo matrimonio, puoi rinnegare tutto, ma io ci sono. Sono qui. Così come c’è quel muro, quella scritta, l’autobus, io e il mio dolore. Potrai negare con tutta la tua forza che io esisto, ma la vita è un mistero, e misteriosamente c’è.

 

(Paolo Covassi)