Non è un caso che Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, segretari di Cgil, Cisl e Uil, abbiamo deciso di trascorrere il primo maggio a Rieti. Si è trattato di un gesto di riguardo nei confronti di una Regione che sta subendo, in maniera ben più allarmante delle altre, gli effetti maggiormente deleteri attribuibili alla crisi. Nel 2011, ben 1200 imprese hanno chiuso i battenti mentre, nel 2010, 266 imprenditori si sono tolti la vita, registrando una crescita dei suicidi del 27,3% rispetto all’anno precedete. Secondo la Cgil, poi, tra disoccupati, nuovi poveri, cassaintegrati, ci sarebbero almeno 1 milione e 200mila cittadini laziali, mentre solamente nell’ultimo trimestre dell’anno passato si sono ritrovati senza di che vivere in 60 mila; complessivamente, quindi, i disoccupati sono saliti a 274mila mentre quelli senza lavoro, sommati ai cosiddetti “scoraggiati” sono 500mila. Perché le difficoltà si sono abbattute in misura così gravosa proprio sul Lazio? IlSussidiario.net lo ha chiesto a Gaetano Troina,  professore di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Roma Tre. «Il Lazio – spiega – è costellato da una miriade di piccole e medie imprese. Molte della quali hanno a che fare con lo Stato e sono penalizzate dal ben noto problema dell’impossibilità di esigere i propri crediti presso le amministrazioni pubbliche. Siamo di fronte ad un paradosso. Un tempo, le aziende chiudevano per debiti. Oggi, chiudono per crediti». Da mesi il governo sta studiando una soluzione, mentre di recente il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha proposto al governo di derogare le aziende creditrici dal pagamento delle tasse fino al raggiungimento dell’ammontare del credito vantato. «Si tratta di una proposta – rivela il professore  – che, personalmente, ho fatto diversi anni fa». Tuttavia, allo stato attuale, in molti casi non sarebbe sufficiente ad impedire chiusure e fallimenti. «Le criticità di adesso riguardano, prevalentemente, l’assenza di liquidità. La sospensione del pagamento delle imposte avrebbe dato loro un po’ di respiro due o tre anni fa; oggi non avere impegni d’uscita sarebbe utile, certo. Ma non garantirebbe loro, nell’immediato, le risorse finanziarie necessarie all’espletamento delle attività quotidiane, quali il pagamento dei propri fornitori». Quindi? «Sarebbe necessario che le banche tornassero a fare il loro mestiere. E che sbloccassero, effettivamente, l’accesso ai prestiti». Ci sono altri ordini di problemi: «è assente, nel Lazio, un programma di investimenti sostenuti. Ma una delle criticità più rilevanti in assoluto riguarda l’incapacità delle imprese di fare rete. In molte Regioni, sono nate una accanto all’altra, sono cresciute insieme, si sono aiutate vicendevolmente. Nel Lazio, invece,  buona parte è nata in solitaria, e ha continuato ad agire in maniera isolata, senza un rapporto organico con chi, nella medesima zona, si occupava degli stessi prodotti». Fare rete consentirebbe loro di affrontare un’altra sfida nei confronti della quale sono bene poco attrezzate.



«Spesso, l’unica possibilità di resistere alla difficile congiuntura economica consiste nello sbarcare sui mercati esteri. Per farlo, tuttavia, è necessario superere le proprie ridotte dimensioni alleandosi. E realizzando prodotti di qualità garantita». Un’altra connotazione intrinseca al tessuto aziendale laziale ha determinato la difficile situazione: «molte delle imprese del Lazio, specialmente della parte più meridionale, si sono generate attorno alla Cassa del Mezzogiorno. Una storia che non ha saputo proseguire nel tempo». E infine: «nella Regione, spesso negli ultimi tempi, c’è stata l’assoluta assenza di una vera politica industriale».



 

(Paolo Nessi)

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