Era prevedibile. Tra le possibilità più concrete, vi era l’ipotesi che gli effetti del referendum sull’acqua non potessero andare oltre il dar nuova linfa all’ondata anti-berlusconiana che connotò il periodo in cui fu votato. Conclusasi un’epoca, cambiato il governo, l’esito di quella consultazione è stato archiviato. E il comune di Roma ha deciso di procedere alla cessione del 21% di Acea, la multiutility  che controlla e gestisce i servizi idrici della Capitale. Intanto, mentre la maggioranza capitolina bocciava tutte le cinque pregiudiziali presentate dall’opposizione, gli attivisti referendari sono insorti. Per nulla. Spiega, infatti, Paola Garrone -analizzando pro e contro della cessione – che il referendum non vieta nulla di quanto il comune sta facendo.



Può descriverci il quadro normativo che regola la cessione dei servizi pubblici?

Ci sono due indicazioni apparentemente contrastanti. Con il decreto liberalizzazioni e, ancora, prima, con la manovra di agosto, è stato ratificato il principio tale per cui i comuni proprietari di aziende quotate operanti nei servizi pubblici locali debbano scendere sotto il 30% della loro partecipazione entro il 2015; in caso contrario, gli affidamenti cessano, e il servizio viene concesso ad altri mediante apposita gara.



E poi c’è il referendum…

Si, ma si è limitato a cancellare l’obbligo di gara per quanto riguarda i servizi idrici. Ciò non significa che non sia possibile fare la gara, vendere la gestione del servizio pubblico o quote azionarie. L’Unione europea, del resto, stabilisce che, in ogni caso, si tratterebbe di un’operazione lecita. E’ sempre bene ricordare, inoltre, che le strutture restano proprietà del Demanio, mentre l’acqua rimane pubblica. Ciò che viene privatizzata è la gestione del servizio.

Posto, quindi, che non è vi è alcuna incompatibilità con gli obblighi di legge, quali sarebbero, per i cittadini, i pro e i contro della vendita?



Distinguiamo. L’Acea oltre, a gestire i servizi idrici, produce, vende e distribuisce energia elettrica. Da quest’ultimo asset proviene la maggior parte dei suoi ricavi. Tuttavia, valgono  una serie di considerazioni: anzitutto, Acea, sul fronte della produzione di energia, non costituisce un monopolio naturale. I cittadini, infatti, possono acquistarla tranquillamente da altri operatori. Di per sé, inoltre, più che svolgere un servizio che ad altri sarebbe precluso, effettua semplicemente un’operazione di “capitalismo municipale”, ove i dividendi del business avvantaggiano il Comune.

Quindi?

L’attività di produzione elettrica non conferisce ai cittadini alcuna garanzia in più circa la bontà del servizio. Da questo punto di vista, mi pare che nulla osti alla vendita delle quote relative al possesso e alla gestione delle centrali. Tanto più che i vincoli di bilancio e la situazione delle casse dei comuni italiani impongono il reperimento di liquidità.

E per quanto riguarda i servizi idrici?

In via prudenziale, è meglio vendere una centrale elettrica  che una rete del trasporto locale, un aeroporto o, appunto, la gestione di un acquedotto.

Perché?

Non è stato dimostrato che privatizzare un servizio in monopolio pubblico porti necessariamente dei vantaggi in termini di riduzione dei costi o miglioramento della qualità.  Ci sono esempi di imprese che operano nel settore dei servizi idrici più o meno virtuose sia nel pubblico che nel privato. Tant’è vero che mentre in molti Paesi la gestione dell’energia elettrica è prevalentemente privata, in altrettanti quella dei servizi pubblici è prevalentemente pubblica.

A quali condizioni, quindi, l’affidamento ai privati sarebbe un bene per i cittadini?

Il problema è che in Italia non esiste un vero e proprio regolatore indipendente dell’acqua analogo all’Autorità garante per l’energia. Inoltre, all’orizzonte, attualmente, al di fuori delle multinazionali e delle grandi aziende straniere, specialmente, quelle francesi, non si vedono altri investitori interessati ad eventuali acquisizioni né dotati di una disponibilità finanziaria adeguata.

 

 

(Paolo Nessi)

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