Di nuovo tutta la città ne parla, del boia delle Ardeatine, Erich Priebke. Come quando lo catturarono, e al processo così tardo si stabilì che un uomo di 85 anni non poteva andare in carcere. Era passato tanto tempo, non si sarebbe offesa la memoria, si disse. E invece si alzò lo sdegno della comunità ebraica, della gente che ricordava, eccome. E comparvero sui muri le scritte a vernice di emuli idioti del nazifascismo, troppo ottusi perfino per avere un ideale, benché sbagliato.
Lo si poteva dimenticare, quel vecchio ancora aitante e altezzoso, se non avesse voluto celebrare i suoi novant’anni con una festa in pompa magna, per sfregio alla città che aveva martoriato, e che pure lo accoglieva e sopportava. Ora che è morto, a 100 anni compiuti, c’è chi ancora sbandiera le sue empie azioni e parole come un vessillo di libertà. “Un uomo che ha obbedito. Non aveva di che pentirsi, ha eseguito gli ordini”.
Ma c’è dell’altro, perché siamo stati prontamente informati a poche ore dal trapasso che l’aguzzino aveva lasciato un testamento morale, un’intervista, un testo scritto, per ribadire la sua follia. Nessun olocausto, un’invenzione dei vincitori. Nessun eccidio, ma la risposta, in stato di guerra, a un’azione di guerra, l’attentato partigiano di via Rasella. Sono passati settant’anni, gli storici hanno potuto lavorare con agio. Ci sono testimoni, figli di testimoni, ci sono corpi trovati e fotografati, corpi riconosciuti, ormai sfatti e bruciati dalla calce viva con cui si cercò di nascondere l’orrore. Sono prove che parlano. Non vale neppure la pena darsi da fare per ribattere all’infame pazzia.
E infatti, perché se ne parla? Perché non si è steso un silenzio tombale, letteralmente, su vita e morte di quest’uomo che non ha conosciuto pietà, né pudore. Perché le discussioni oggi sui funerali, come se fosse possibile una scelta pubblica, come se non esistesse a Roma una cappella fuori mano, dove compiere un rito. Sempre che un sacerdote, che abbia accolto la confessione del boia, possa concedergli una benedizione. Parce sepultis.
I nostri vecchi dicevano saggiamente che Dio tiene più a lungo in vita gli empi per dar loro un’estrema possibilità di pentirsi. Non è insensata l’umana e semplice spiegazione del perché ai buoni tocchino persecuzioni e sofferenza, mentre agli ingiusti arride la vita. Nel caso di Priebke, dopo la fuga, ebbe in sorte quarant’anni con i suoi affetti in Argentina, protetto da un regime bieco, che aveva poco tempo per pensare a lui, impegnato com’era ad ammazzare e torturare i propri figli.
L’hanno fatto trovare quando era vecchio e solo. Eppure 100 anni non gli sono bastati, per rivedere uno ad uno i volti, per scorrere quei 335 nomi che ha scelto, uno ad uno, per gettarli nelle fosse, a pochi metri dalle catacombe che custodiscono le reliquie dei primi martiri cristiani.
Quei santi saranno tornati attraverso i cunicoli antichi, avranno preso per mano uomini, donne, ragazzi, per abbracciarli, e guidarli in cielo. La c’è, la Provvidenza. Ci sarà, il giudizio di Dio. A noi, che abbiamo mille e una prove per scrivere quello della storia, si addice adesso la civiltà del silenzio, la moralità del silenzio, assoluto. Sulle sue ultime farneticanti dichiarazioni, su quelle del suo avvocato, sui suoi funerali, sulla sorte del suo feretro. Un indifferente silenzio.
E una civile, giusta richiesta, a mio parere: per la sepoltura, ci pensi l’Argentina, che gli ha dato omertosa ospitalità per tanti anni. Non è più quel regime? Noi siamo ancora più lontani nel tempo da responsabilità totalitarie. Gli trovino un posticino accanto alla moglie, sarà più difficile, laggiù, attizzare il revanscismo stupido di chi lo considera un eroe. Non andranno a disegnare svastiche e sventolare gagliardetti tanto lontano.
Oppure, poiché è un paese ricco e democratico, e generoso, adesso, se lo riprenda la sua patria, la Germania, che lui ha sempre detto di aver amato e difeso. Facciano loro i conti con un passato tante volte frettolosamente sepolto. Anche una tomba, alle volte, aiuta a pensare, a non sentirsi comunque i migliori.