Ieri piazza San Pietro era una selva di ombrelli che si aprivano e chiudevano ritmicamente secondo i capricci del cielo. Una giornata penitenziale per la capitale, coperta dalle nubi plumbee, affogata nell’acqua piovana, tristemente consegnata all’inverno. La cornice ideale per una catechesi che aveva a tema la remissione dei peccati e il “potere delle chiavi”. 



Francesco, un po’ raffreddato, aveva in mente di far riflettere su come arriva al povero peccatore il balsamo della Misericordia divina. Una specifica tutta cattolica, quella di prevedere “veicoli umani” del perdono di Dio. Il Papa, che – è evidente – aveva ben chiaro dove arrivare, l’ha presa alla larga, spiegando: 1. Chi è il protagonista del perdono dei peccati (lo Spirito Santo); 2. Il passaggio obbligato che occorre allo Spirito per arrivare fino a noi (le piaghe di Gesù); 3. La Chiesa è la depositaria del potere delle chiavi (vale a dire di aprire o chiudere il portone del perdono). Ma le premesse, necessarie, non devono ingannare, il Papa ce l’aveva con i preti e solo un po’, quasi di contorno, con i miseri peccatori. 



Perché se è vero che spesso la basica obiezione al sacramento della Confessione nasce dal soggettivismo di cui siamo ammalati e viene rafforzato dalla presunzione di fare tutto da soli, saltando gli intermediari per vedercela faccia a faccia con il grande Capo, è anche vero che spesso la grata, o meglio chi gli sta dietro, è respingente. Insomma, Bergoglio ieri se l’è presa con quei sacerdoti frettolosi e dogmatici, per cui è facile amministrare la grazia del perdono come un contrassegno dato in cambio del giusto grado di contrizione. Quanti di noi, accostandosi al confessionale, hanno avvertito il fastidio dell’incomprensione, il distacco dall’atto compiuto, l’indifferenza del giudice. E quanti invece non si sono mai avvicinati per il timore del giudizio oltre che per l’abisso di vergogna? 



La confessione è quanto di più personale e intimo viene richiesto ad un credente. S’impone l’esame di coscienza, la radiografia dell’anima, la disamina delle proprie fragilità e si mette sul piatto la mancanza di amore per Chi invece ama senza sbagliare mai. E’ il confronto con la perfezione, l’istante in cui dobbiamo guardare il nostro male e dargli un nome. Insomma è già qualcosa di terribilmente difficile, se poi ci si mette anche un prete maldisposto è finita.

Così Francesco, preoccupato di riportare all’ovile più pecorelle possibili, mette in guardia la schiera di pastori: sappiate che quello che fate dietro la grata – sembra dire – è decisamente importante, ne va della salvezza di un bel po’ di anime. Ecco allora le raccomandazioni fornite: perdonare i peccati è un compito delicato, “esige che il cuore sia in pace”. Quello del prete di turno. Che inoltre deve essere “mite, benevolo e misericordioso”, e soprattutto, non deve maltrattare i fedeli. 

Il sacerdote, nell’esercizio di “strumento della Misericordia divina”, deve seminare speranza nei cuori, guarire ferite e non creare traumi e angosce. “I fratelli penitenti hanno il diritto – ha gridato il Papa alla Piazza – di trovare nei sacerdoti dei servitori del perdono di Dio”. Aggiungendo, “Il sacerdote che non abbia questa disposizione di spirito, è meglio che, finché non si corregga, non amministri questo Sacramento”.  E qui è scattato l’applauso. E considerando la risposta della piazza il problema nella Chiesa esiste. Se “l’effetto Francesco” ha riportato fedeli recalcitranti entro il perimetro delle parrocchie, bisogna che non solo le porte siano aperte, ma anche le braccia di chi ha la responsabilità di rigenerare fede e cuori. Di chi, come ha spiegato bene Bergoglio, dà la cura, la protezione e soprattutto la sicurezza del perdono di Dio. I sacerdoti appunto. Peccatori come tutti, vescovi, cardinali e Papa compreso, ma in ogni caso deputati a certificare carnalmente, attraverso la propria umanità, la Misericordia di Dio. 

Ora, non è che tutti si devono trasformare in curati d’Ars, ma tendere al modello sarebbe già sufficiente. Perché l’incontro con il confessore può essere decisivo e il primato, sembra suggerire il Papa, deve essere sempre quello della Carità (o dell’amore che è lo stesso). Segnalo solo che già Benedetto era in fissa con il bravo parroco francese, “prigioniero del confessionale”, avendolo citato innumerevoli volte come esempio ai sacerdoti. A questo punto ai fedeli non resta che fare come il Papa, andarsi a confessare ogni quindici giorni o all’occorrenza. 

Ps. Al termine dell’udienza il solito meravigliosamente empatico Francesco. Fa fermare tutti e ricorda le vittime dell’alluvione in Sardegna. Chiede “una preghierina” in silenzio e invoca la Madonna perché benedica e aiuti tutti i fratelli e le sorelle sarde. 

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