E’ cominciato l’autunno, anche a Roma, nonostante il ritardo. Nell’aria frizzante di una mattina solare, piazza San Pietro brillava di luce, e come ogni mercoledì, era affollata. Le catechesi del papa. Il modo più semplice e libero da veline mediatiche per ascoltare un pastore, e sentirlo parlare di Cristo. Spiegava il significato dei sacramenti, la forza della loro perenne novità, nel solco di una tradizione incominciata da Dio stesso. L’unione nei sacramenti, l’unione dei carismi ci fa partecipi di quella comunione de santi che troppe volte riteniamo appartenga solo all’aldilà, e a uomini speciali che possono godere della sua eterna letizia. Ma è soprattutto la carità a unire i cristiani, intesa come amore donato direttamente dallo Spirito Santo. Facile, lineare, come ogni parola che pronuncia quest’uomo ispirato e così capace di rispondere al nostro bisogno di essere compresi, caricati di speranza e fiducia. Poi, il papa ha chiesto una cosa strana. E la piazza si è fermata, chi a capo chino, chi guardando quel cielo azzurro da stringere il cuore, chi indugiando sugli sguardi dei diversi santi di marmo che svettano sulla basilica, a protezione, a memoria della sua storia bimillenaria.
Un minuto di silenzio, ha chiesto il papa. Siamo abituati agli inviti ad urlare, quando qualcosa non va o non la capiamo. Siamo abituati a sentircelo domandare, o imporre, il silenzio, alle manifestazioni, qualche volta vediamo in tv che interrompe il blaterare o gli insulti in parlamento, tra uno sbadiglio e uno sguardo all’orologio. Perfino a scuola, senza che nessuno spieghi in dettaglio perché e che senso abbia, questa pausa forzata al rumore. In genere è un silenzio chiesto in ricordo di un defunto importante, di un evento tragico, o a sostegno di iniziative benemerite. Così una catastrofe naturale o un fatto storico antico, un personaggio illustre o una guerra dimenticata balenano nelle nostre giornate distratte, ma è un attimo vuoto.
Il papa ha chiesto a 50.000 persone di tacere per una bambina, con un nome preciso, Noemi. Non la conosciamo, ha spiegato, ma ha una malattia grave, ho visto poco fa i genitori, ho promesso loro le nostre preghiere. La famiglia di Noemi, affetta dalla terribile tetraparesi muscolare spinale. La sua famiglia, com’è ovvio, come faremmo tutti, vuole l’impossibile dalla scienza, e ha chiesto di poter accedere ai trattamenti di cui si sta dibattendo da mesi, e che sono stati ritenuti non validi dai medici e dal ministero della Salute.
Ora leggeremo che il papa approva il metodo Stamina. Invece il papa non fa né il neurologo né il tuttologo, e sa solo accogliere, ascoltare, pregare e far pregare, per il miracolo. Dunque stiamo in silenzio e poi diciamo insieme per lei un’Ave Maria, ha detto. Ma di bambini sofferenti ce ne sono tanti. E pochi arrivano a farsi conoscere al papa.
Ecco la differenza: Gesù non ama tutti, secondo categorie o appartenenze; Gesù ama il tuo volto, piange per il tuo male, fissa i tuoi occhi. Quelli di Noemi, che non rappresentava una categoria, ma solo se stessa. Però è la sfida, il miracolo della comunione dei santi. Non ci è estranea la sua sorte, perché è parte di noi, è una battezzata, è una prescelta. Siamo nella Chiesa insieme, noi e lei, dunque ci preme, ci interroga, ci coinvolge. E’ semplice, appunto: volete fare un gesto di carità? Ha interpellato i presenti in modo disarmante. Non pensate a tirar fuori il portafoglio, non facciamo una colletta, ha detto Francesco, anticipando con sano realismo i pensieri. La carità non è elemosina, non innanzitutto. E’ qualcosa di più, è essere un cuor solo e un’anima sola. Strano silenzio riempito di pensiero e preghiera, che allargava la piazza al mondo, che portava col vento d’autunno il palpitare vivo di una Chiesa davvero universale. Altro che struttura, che organizzazione.