Ieri su Repubblica il suo direttore, Ezio Mauro, ha firmato un pezzo da maestro di giornalismo, che è insieme inchiesta e scrittura. È il racconto dell’ultimo viaggio del corpo di Erich Priebke, il boia delle Ardeatine.

Sappiamo che non ha avuto da morto quella pace che non ha chiesto, e che solo la domanda di perdono, il pentimento sincero poteva offrirgli. Sappiamo che sul suo feretro si sono azzuffati in nome dell’ideologia sostenitori e indignati, offrendo al mondo uno spettacolo indegno, accusando le istituzioni di scarsa autorevolezza e chiarezza nelle decisioni. Un corpo è un corpo e soltanto un corpo. Toccava pensarci da tempo, che a 100 anni un uomo può anche morire. Toccava  inventare una soluzione, magari farne carico all’Argentina, che ne ha protetto una vita maledetta per anni, o alla sua patria, la Germania, da cui solitamente ci arrivano lezioni di moralismo e serietà politica, ma che i conti col suo passato stenta a farli tutti, e davvero. Si poteva trovare in anticipo la soluzione che poi è stata trovata, ed evitare altre dolorose memorie, passerelle indegne, e lo sfregio al cadavere del nemico, la cui sepoltura, ricorda Mauro, “è un gesto di civiltà e un atto di umanità”. 



Una democrazia questa sepoltura gliela doveva assicurare prima, senza fughe notturne, senza segreti di Stato, che ha la forza in sé, e l’autorità, per prendere decisioni e farle rispettare. Invece, lo Stato si è piegato alla paura. Lo Stato non ha saputo imporre le sue scelte, e ha tollerato il linciaggio, seppure di un morto. Non si tratta di pietà, sentimento tutto cristiano che si accompagna alla coscienza di essere tutti peccatori e mendicanti di una Pietà più alta. Si tratta di coraggio, di sicurezza, di un paese invece fragile e insicuro, ostaggio ancora di quelle ideologie che non sono affatto sepolte nel cimitero incolto del carcere dove Priebke è stato interrato frettolosamente. 



Non si tratta di pena o comprensione per i familiari, che  avrebbero potuto dire qualcosa di civile, di umano, mettere in bocca al padre le parole che non ha pronunciato, anziché perpetrarne una memoria crudele e un’ostinazione caparbia nella menzogna. Sappiamo tutti che Priebke probabilmente avrebbe azzardato la vita, disobbedendo a un ordine. Sappiamo che tanti hanno saputo disobbedire immolando la loro vita per la verità e la giustizia. Sappiamo che c’è stato un centuplo di orrore, di malvagità e disprezzo, nella rappresaglia, nell’uccisione di quelle 335 vittime, nella disumanità con cui si è nascosto e coperto di calce viva il sito della tragedia. 



Sappiamo, e già solo ragionare sui motivi, e il tempo trascorso, e l’educazione impartita, disquisire sui cenni di una ambigua redenzione, tutto questo è già giustificazione, oppure chiacchiera inutile. Eppure, il tentennamento, l’imbarazzo, la confusione dello Stato in tutte le sue forme non doveva esserci. 

È lugubre e foscamente poetico il quadro di quella terra rimossa nel prato diserto di un carcere fuori mano, dove non si prega da decenni su una vita sparita, e la ruggine resta sola a lavorare, la terra non divora più nulla. Triste luogo, come triste il cancello che chiude al mondo i vivi reclusi nelle sue mura. 

Non è “un angolo di mondo nuovo”, come scrive Repubblica. Con le sue ingiustizie, che lo Stato permette, con le sue indicibili violenze, ogni carcere è un pezzo di mondo vecchio, purtroppo; il male fatto e subito lo pervade, e non è detto che aggiungerne altro, con le sue memorie terribili, non lasci il segno. Visioni. Davvero, là dentro nessuno sa chi era Erich Priebke. Il Novecento finisce con quella croce di legno senza nome? Magari: tocca ricordare, alzando la voce, che il Novecento ha creato mostri vivissimi, che continuano a generare figli degeneri. I totalitarismi si occultano, ma la loro pervasiva potenza impregna coscienze e istituzioni, predica ancora l’odio per il nemico, la gogna per l’avversario, stila precetti morali utili ai suoi scopi, sottrae libertà mascherando unanimismo per civiltà e progresso, schiera le sue truppe che prepara a nuove battaglie. Non ci sono graduatorie tra i cattivi, di ex aguzzini ce ne sono tanti, e conta poco che divisa portassero, hanno posti in vista, scrivono e declamano nelle università, giustificano i morti in nome delle idee alte che li hanno ispirati. Tocca ricordarlo. 

E forse, ma lo penso come dubitosa domanda, anche se le notizie si raccontano, non era il caso di segnalare al mondo il luogo della sepoltura del criminale nazista. Perché leggendo l’articolo su Repubblica qualche guardia giurata, qualche improvvisato becchino, che non sapeva nulla, avrà messo insieme gli indizi, e capito. Ieri sera ho letto che la ricostruzione offerta dal quotidiano viene smentita, e con la solita asprezza cui ci ha abituato l’avvocato di Priebke. Pur cause. Se tra qualche settimana ci sarà un servizio su qualche rivista o in tv, con foto meno sgranate e dettagli sulla sepoltura, tutti gli sforzi di uno Stato imbarazzato saranno stati vani. Paventeremo manifestazioni alle porte del carcere, proteste dei parenti cui era stata assicurata segretezza. Si ricomincerà a far girare il feretro, e ci convinceremo che il Novecento non è sepolto per niente.