Il ciclone Francesco sta portando a galla, con un rimescolamento salutare di priorità, molte questioni che erano state affrontate sempre, ma mediaticamente avevano bisogno di un forte vento per essere rimesse nel mondo. Così, il problema delle donne nella Chiesa, riproposto l’altro giorno in un appassionato editoriale su Avvenire, da Stefania Falasca. Problema etimologicamente deriva dal greco pro-ballein, essere gettato davanti. Non un quesito su cui arrovellarsi, o lo spunto per un dibattito tra intellettuali o teologi. Un fatto. Tocca accorgersi che le donne ci sono, stanno lì, lanciano al mondo la sfida della loro presenza. 



Al mondo: perché se nella Chiesa la donna ha ancora un ruolo marginale,  è perché la Chiesa vive nel mondo, partecipa delle sue ottusità e arretratezze. Anzi, la Chiesa è un po’ più avanti, checchè se ne dica. Non foss’altro per le parole mirabili e l’attenzione al genio femminile di Giovanni Paolo II, per la riconosciuta grandezza di tante sante elevate al rango di “dottori”, e su su, fino alla scandalosa considerazione della donna che ha mostrato il Maestro. 



Nato da donna, “colei che l’umana natura nobilitò sì che il suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”. L’umana natura, cioè tutti, gli uomini e le donne. Gesù, che scelse le donne come compagne, quando alle donne non era neppur permesso di assistere alle preghiere comuni, che le volle come prime testimoni, che si rivelò a un donna, un’altra Maria, perché fosse lei, proprio lei la messaggera della Resurrezione. 

Ma la rivoluzionaria apertura di mente e cuore che ci è offerta dal Vangelo cozza con reiterati e anacronistici pregiudizi, inossidabili e aride consuetudini delle macchine burocratiche, di certi apparati clericali che temono di perdere di potere, guardando e facendosi guardare dal genio femminile. Il punto è che l’hanno già perso, questo potere, insieme alla credibilità, al fascino, figli della carità vissuta. Dalla compagnia fruttuosa delle donne potrebbero ritrovare slancio per il compito che è stato loro assegnato.



Il punto è capire che non si tratta di condividere un potere, né di scalarlo, come anche molte donne nella Chiesa di fatto bramano, anche se manifestamente non dicono; o ci crediamo, che siamo umili servitori nella vigna del Signore, tutti quanti, o smettiamola con le citazioni. Le donne a “servire” sono abituate da sempre, e lo sanno far bene. Servono perché sono utili, servono perché sono generose e sanno dimenticare se stesse, fino all’umiliazione, agli occhi del mondo, non a quelli di Dio. Tocca agli uomini imparare a servire così, e da chi impararlo, se non da chi lo sa fare? 

Non basta riconoscere che le donne sono un aiuto prezioso, una fonte inesauribile di sensibilità, dedizione, cura, tenerezza, amore. Tutto questo c’è, ma non basta prenderne atto. Tocca provare a fare altrettanto. Non si tratta dunque di assegnare posti, anche se sarebbe logico e auspicabile. Per le cariche di responsabilità in cui non occorre il carisma sacerdotale, non si vede perché una suora, una laica non possano svolgere egregiamente mansioni finora appaltate alla curia. Non si tratta di aspirare a porpore o raso, almeno nella chiesa smettiamola di imitare in tutto i modelli maschili, quasi che l’identità femminile per esistere debba compararsi agli uomini. Men che mai si tratta di rivendicare il sacerdozio: come se i maschi pretendessero di fare figli! Capita anche questo, è vero, ma è evidentemente uno stravolgimento della natura. Il sacerdozio è un carisma speciale, un dono. 

Le donne hanno il più grande, la maternità, e non solo quella fisica. Sarebbe ora di smetterla con dibattiti su questo tema, giudicando la modernità o il progressismo dei pontefici e dei cardinali dall’adesione o meno all’idea, quasi che la Chiesa di Dio potesse, come una convention di partito, modificare le proprie leggi a seconda delle sentenze dei più, o delle tendenze del mondo. Bisogna invece concentrarsi su altro: gli uomini hanno bisogno delle donne. No solo per cucinare e stirare i panni, per occuparsi dei bambini e tener puliti i refettori parrocchiali; non per tenere aperte missioni dove non ci sono più preti, e svolgere tutti i ruoli appaltati a loro dove la presenza statale vien meno, e quella ecclesiale tarda. 

No, gli uomini hanno bisogno dell’intelligenza delle donne, della loro acuta capacità di capire le persone, della loro indomita disposizione ad amare, pazzamente, senza ritegno. Hanno bisogno non solo di averle al fianco, ma di seguirle, come fu per Pietro e Giovanni quel mattino di Pasqua. Grazie a Maria, corsero al sepolcro, videro, e credettero. E furono testimoni per i loro fratelli, e per tutto il mondo a venire. Come questo possa avvenire, liberandosi da sedimentati luoghi comuni e presunte posizioni di privilegio, è materia di approfondimento per i teologi, e non nei tempi a venire. Ma è soprattutto un’occasione per guardare onestamente alla realtà: alla gloria di Cristo, al suo volto nel mondo, la Chiesa, serve avere una voce monocorde? Serve che uomini e donne si contrappongano, secondo modelli veterofemministi, o che si lavori insieme, alla pari, secondo i propri compiti, tutti i compiti? La risposta verrà più facilmente da sinodi e convegni oppure dall’intelligenza e dal cuore?

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