Abito a Roma, in via Fani. A venti metri dalla lapide che ricorda quel 16 marzo 1978. E’ messa su un angolo, sotto una teca di vetro, ci mettono una volta l’anno i fiori freschi, mette tristezza vederli seccare, come la memoria. Ci sono scritti cinque nomi, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino. Sono in ordine alfabetico, ma li ho scritti così, perché i primi due erano carabinieri, gli altri agenti di Pubblica Sicurezza. Se li elenchi in ordine di età, il primo è Leonardi, 52 anni, due figli già adolescenti, poi c’è Rivera, padre di famiglia anche lui, 42 anni. Gli altri erano ragazzi, di 30, 24, 23 anni, e sono rimasti i genitori a piangerli, finché hanno potuto, i fratelli, gli amici. Non sono morti tutti sul colpo, Francesco Zizzi, gravemente ferito, è stato in agonia qualche ora, e ha chiuso gli occhi al policlinico Gemelli, senza poter vedere uno dei suoi cari in viso, ci hanno messo un po’ ad avvisarli, sparsi qua e là in paesi lontani d’Italia. Li hanno cercati e accompagnati con impacciata, rude solidarietà in un albergo di Roma, e poi portati a riconoscere delle salme, trovate riverse sui sedili, accasciate sotto lenzuola bianche, sull’asfalto, a protezione estrema della macchina su cui trasportavano l’onorevole Aldo Moro, il Presidente. Pensare che alcuni erano lì per caso, manco lo sapevano quella mattina di scortare un personaggio così importante. Quella mattina era previsto il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, e per la prima volta col voto del Partito Comunista, artefice il leader democristiano. Una data storica. Lo divenne per altro. Per l’inizio dell’incubo più buio della storia della nostra Repubblica. Da quella mattina, ancora fredda nelle brume del quartiere Camilluccia, che è così verde, (uno degli agenti s’era portato dietro un termos di caffè caldo) per 55 giorni tutto il Paese fu preso in una morsa di sgomento e stordimento, tutti, dai politici alla gente comune. Che stava succedendo? Era la guerra civile, già annunciata dalle P38 che non miravano più solo alle gambe, ma soprattutto spiegata nelle piazze, enunciata sui muri, dove la stella a cinque punte diceva morte, rivoluzione col sangue. 55 giorni di trattative, ricerche, indagini, depistaggi, compromessi, vuoti di memoria e tentennamenti, crisi di nervi e di coscienze, pianti, speranze, preghiere. 55 giorni prima di trovare in un’altra via, più centrale, il corpo di Aldo Moro crivellato di colpi, annunciato da una gelida telefonata.
Ogni mattina passo davanti alla lapide all’incrocio tra via Fani e via Stresa, è in basso, ad altezza portiera, ma sull’angolo non si può indugiare, quando viene qualche personaggio importante per gli omaggi dovuti rischia di esser investito dai disattenti agli stop. Non ci si può fermare a leggere bene i nomi, uno ad uno. Di questi figli d’Italia che si sono guadagnati il pane e il paradiso facendo fronte agli insulti e agli sputi, che hanno lasciato i loro paesi tanto più umani e tranquilli per servire lo Stato, si dice così, li hanno educati così e ci credevano tutti. Leonardi poi, il caposcorta, a Moro era proprio affezionato, lo vedeva come una persona tanto gentile, semplice. Nel quartiere dove ha vissuto tutti ricordano la sua famiglia e la moglie, quella donna rocciosa e silente che fino alla morte ha continuato a spiegare catechismo ai bambini della parrocchia, generazioni di ragazzini sono stati educati alla fede da lei.
Bisognava averne tanta, di fede, per reggere alla brutalità, e a tutto il resto, i tradimenti, gli imbarazzi,la solitudine. L’altra sera c’era in tv una pagina de la Grande Storia dedicata a quel fatto, l’agguato, la strage di via Fani, l’operazione Fritz, la chiamavano i brigatisti. Ho visto i volti corrispondenti ai nomi che scorro senza fermarmi ogni mattina. I volti dei loro familiari, le case dove sono vissuti, con altrettante singole lapidi. Ho saputo che il loro sacrificio è stato dimenticato, i loro cari dimenticati, c’era da scommetterlo. Mi accorgo che non ho raccontato nei particolari quel 16 marzo e i mesi che seguirono: per chi li ha vissuti, è cronaca viva, non storia passata. Ma per i ragazzi che sfrecciano in via Fani coi motorini, proprio davanti c’è una pizzeria, quella è una pagina di giornale che non hanno letto e trovano poco interessante.
In quel 1978, a chilometri di distanza, frequentavo il ginnasio a Torino, ero piccola, intimorita da quei grandi liceali che in assemblea con barbe e capelli fluenti sfoggiavano paroloni e citazioni di filosofi che non avevo ancora studiato e non capivo. Quel 16 marzo però, nell’assemblea straordinaria che ci costrinse tutti in palestra (mica era lecito scegliere, quando i capi ordinavano), la frase d’apertura la ricordo bene: hanno rapito l’onorevole Moro. Né con lo Stato né con le BR. Dove il né con lo Stato veniva prima. Alcuni di quei “grandi” che gridavano più forte li ho ritrovati assurti a incarichi importanti nelle amministrazioni, nei giornali, o sbirciando su facebook, a insegnare a nuovi ragazzi di liceo, e non paiono così cambiati. Ricordo che eravamo un gruppetto sparuto, il giorno dopo, a pregare per quegli uomini e per l’onorevole Moro, in una cappella vicino ala scuola. Unendosi alla preghiera di un Papa, così accorata, drammatica e piegata dal dolore. Un Papa che pregava per il suo amico.