Il giorno era quello di San Giuseppe, il santo delle zeppole oliose o dei bignè infarciti di crema (a seconda della latitudine), l’uomo maturo e barbuto del presepe, con il peso scaricato su un bastone, quello dei sogni e del silenzio ubbidiente, quello che vorrebbe chiedere e capire, ma che alla fine tace e segue. 



Il Santo amato da Francesco, persino prima e di più del poverello di Assisi. Sarà perché la chiesa di Flores, dove a 17 anni si sentì chiamato, era dedicata proprio a San Josè o perché quella mitezza amorosa dello sposo di Maria gli appartiene, fatto sta che non poteva esserci giorno migliore. Il Papa venuto dalla fine della terra ha inziato il suo ministero. Mentre un altro pontefice, emerito per carità, festeggiava il nome e il destino, guardando la tv come un pensionato qualsiasi, in una separazione necessaria, una lontananza autoimposta, una clausura lieta e fruttuosa. Persino il sole si è commosso, donandosi con fare inaspettato, illuminando il bianco della veste che sfilava tra la folla e rendendo lucida Roma. Un sole complice di sguardi, saluti, carezze e sorrisi. Un sole che splendeva mentre a Buenos Aires era notte fonda, una notte stellata, estiva e promettente, rotta dal gracchiare degli autoparlanti e dalla dolcezza dei canti. 



Francesco prima di scendere nella Piazza con il mondo incollato addosso, deve aver pensato alla frescura di Plaza de Mayo nelle ore buie di marzo, alle migliaia di persone che avevano sfidato il sonno e la stanchezza per vederlo, sugli schermi, davanti la Catedral. E deve essersi detto: quasi quasi mi faccio sentire, faccio arrivare la mia voce, e gli dico che sono con loro, che gli voglio bene, che sono Vescovo di Roma, ma che non li posso strappare dal mio cuore, che anzi lo devo dilatare fino a farlo scoppiare per metterci tutti, ma proprio tutti. E così alle 3.30, l’Argentina ha sentito la voce dell’Obispo, el Santo, distorta il tanto che basta dalle migliaia di chilometri, i rimbalzi satellitari, le connessioni intercontinentali e i megahertz degli amplificatori, ma riconoscibile nella dolcezza con cui ha chiesto di guardare il cielo e poi il cuore, per scoprire il Padre buono, quel Dio che è così bello pregare e avvicinare. 



Poche parole per inondare di lacrime i volti rugosi e quelli freschi di anni, per chiedere di prendersi cura gli uni degli altri, di proteggere bambini, anziani, famiglie e creato. Un favore, ha detto. Fatemi un favore. Splendido Francesco. E dire che sul sagrato, nell’anticipo di primavera romana, c’era mezzo pianeta, principi, re, capi di Stato e ambasciatori. 

E lui era atteso per uno degli atti più solenni di Santa Romana Madre Chiesa. E così è arrivato all’appuntamento con la Storia, sulla giardinetta, obbediente alle regole, salutando festoso, abbracciando con gli occhi e le mani, e fermandosi quando proprio non poteva resistere, quando ha sentito la voce del povero, di chi non ce l’avrebbe fatta mai a sbracciarsi per lui. Ecco Francesco devono aver pensato i suoi amici. Ecco la capacità di abbracciare la fragilità di ogni vita. Devono aver pensato così, Sergio Sanchez e Josè Maria del Corral, il “cartoneros”, nella divisa blu e verde, arrivato da Buenos Aires per rappresentare l’argentina degli sconfitti e il maestro che non si arrende all’indifferenza e continua testardo a proporre la “escuela de Vecinos”. Così deve aver pensato Suor Ana Rosa, missionaria da 46 anni, l’unica parente presente a Roma, perché le sorelle di Papa Bergoglio (che ben lo conoscono) sono rimaste a casa per farlo contento. 

Poi Francesco che indossa il pallio petrino e l’anello piscatorio, che abbraccia i fratelli cardinali e sorride, che si fa stritolare da un cerimoniale che gli sta stretto e si vede, ma che non molla la barra di una Chiesa che ormai è sua. Confabula con il povero Mons. Marini, sovverte il già scritto, semplifica e parla, stavolta senza soprese se non per l’illuminazione di un nuovo verbo, “custodire”. Così presenta l’I care cristiano, il “prendersi cura” dell’altro, del mondo, della terra. Una rivoluzione umile e silenziosa, fedele e gioiosa, come quella operata da Giuseppe qualche millenio fa. La rivoluzione della tenerezza, quella teorizzata e impugnata per otto bellissimi e drammatici anni dallo Joseph tedesco e ora incarnata nel Francesco latino. Perché il vero potere di un Papa è il servizio, dice papa Bergoglio. Un servizio che ha il suo vertice luminoso nella Croce. Un servizio umile, concreto, ricco di fede che accoglie nella tenerezza chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato e in carcere. Un servizio che dona Speranza. 

Abbiamo un Papa da seguire, simpatico, vero, irresistibile quando trotterella con la veste bianca sopra i pantaloni neri (perché lui le calzamaglie bianche non le metterà mai) o quando si sfiora la fronte con le dita per dire è fatta, dopo l’infinita infilata di strette di mano. Un Papa che sa dove portarci. E che dobbiamo solo amare.      

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