“Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi”. Non so quanti dei presenti in piazza San Pietro ieri mattina hanno avvertito il colpo allo stomaco. Perché diciamocelo, il problema del “primo passo” è “il problema” nei rapporti affettivi. Quante volte siete stati lì per giorni, se non per mesi, addirittura anni, immusoniti, amareggiati, arrabbiati, risentiti, in definitiva infelici e incompleti, in attesa del “primo passo”? Sempre preteso più che desiderato. Quel passo che a volte è destinato a non essere fatto mai.



Quando ho sentito Papa Francesco pronunciare quella frase, evidenza di fede, ho pensato alla tristezza eterna di uno dei personaggi di Amin Maalouf, sensibile scrittore libanese, che nel suo ultimo romanzo, I disorientati, racconta, tra le altre cose, di un’amicizia interrotta e del “primo passo” compiuto a vent’anni di distanza, sotto la pressione della morte, quando ormai è troppo tardi. Se non per “rimettere i contatori a zero”, in attesa di un perdono più grande. Forse. Un’ottica tutta umana, persino nel dubbio finale, nella sospensione della speranza. Le cose non vanno così nella storia raccontata da Jorge Mario Bergoglio da Buenos Aires. Ai 25mila fedeli riuniti tra i bracci di Carlo Magno ha riportato le vicende di un tale Gesù, che più o meno 2 millenni fa, nella zona compresa nel Levante di Maalouf, ha chiamato 12 persone semplici con sé, ha camminato con loro lungo una striscia di terra promessa e già dilaniata, parlando agli umili e ai ricchi, alle vedove e ai centurioni, ai potenti e ai deboli, compiendo miracoli e prodigi nel nome di un Padre buono e misericordioso.



Un tizio che aveva lacrime per gli amici, a cui piaceva mangiare e bere, che è stato tradito ma non ha atteso che l’altro si facesse avanti per perdonare. Uno che non aveva casa. Che al contrario di volpi e uccelli, non aveva “dove posare il capo”. Insomma uno fuori. Fuori dalle regole, fuori dalle misure, fuori dall’ordinarietà in cui pure era immerso. Uno che era il “primo passo”. Il “primo passo” di suo Padre verso un’umanità disgraziata. Papa Francesco ha raccontato tutto con estrema semplicità, questo “disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità” e che ha il suo climax proprio nella Settimana Santa. Quando il Figlio dell’uomo finisce sulla Croce e Gesù si “consegna” nel suo amore infinito ad ogni uomo.



Fin qui la vicenda ben nota. Poi le deduzioni francescane: che significa questo per noi?

Uscire. Nuovo verbo bergoliano. Uscire da se stessi, uscire verso gli altri, raggiungere le “periferie dell’esistenza”. Ecco allora che con la tappa di oggi si compone il progetto ecclesiale del nuovo pontefice. Una chiesa non autoreferenziale, segnata dalla logica della Croce e del Vangelo, missionaria ed evangelizzatrice, aperta e dialogante, viva, recettiva “all’azione creativa di Dio”. Una chiesa che non si accontenta delle novantanove pecore ma “esce” dal recinto per andare in cerca dell’unica smarrita.

Un Papa provocatorio il giusto quando parla di parrocchie chiuse, recinti, tra l’altro per ben poco gregge ormai, di comunità asfittiche, di Messe distratte e incostanti, di carità pulciosa. Un Pontefice che vuole imprimere un movimento in avanti alla sua Barca, un colpo di remi (e di reni), che aiuti il vento a gonfiare le vele. E forse è stato scelto proprio per questo. Se è vero che fece tanta impressione il suo intervento alla fine delle congregazioni generali, in prossimità del Conclave.

Intervento che quel furbacchione del card. Ortega Y Alamino si è fatto consegnare nella forma originale manoscritta e ha pubblicato su Palabra Nueva, foglio diocesano dell’Avana. In frasi sottili e fitte Bergoglio parlava dell’Evengelizzazione come “ragione d’essere della Chiesa”, descrivendo molti dei punti ritornati oggi nella sua prima catechesi. Dall’imperativo ad “uscire”, all’autoreferenzialità, dal bisogno di sfuggire all’infezione del “narcisimo teologico” alla necessità di estirpare la “mondanità spirituale” (secondo De Lubac, “il male peggiore in cui la Chiesa può incorrere”).

Ma è soprattutto l’ultimo punto della bozza di Bergoglio che deve aver convinto i cardinali, quando parlando del futuro Papa spiegava che avrebbe dovuto essere “un uomo che dalla contemplazione di Gesù Cristo e dalla sua adorazione aiuti la Chiesa ad uscire da sé stessa ed andare verso le periferie esistenziali, che la aiuti ad essere la madre feconda che vive della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”. Una Chiesa da “primo passo”. Appunto.

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