Il mercoledì è sempre un bel giorno. Anche se il Papa propone una catechesi da far tremare i polsi sul “giudizio finale”. Perché non c’è niente da fare, possiamo partire con le migliori intenzioni, ma per strada accade sempre qualcosa e la tensione per arrivare all’appuntamento preparati cala inevitabilmente. Il traguardo è lo sguardo eterno di Dio sul nostro cuore. Io sono sempre stata dalla parte di chi sostiene che “l’inferno c’è, ed è vuoto”, più per interesse personale che per convinzione teologica, ma devo confessare che comunque il giorno del giudizio mi terrorizza. Per cui sono stata ben contenta di ascoltare Francesco mentre aggirava il problema, proponendo di puntare sul tempo dell’attesa piuttosto che sulla scena finale. Insomma, lasciando per un attimo la questione se l’inferno sia effettivamente vuoto, poco affollato o sold out, concentriamoci su ciò che è necessario fare prima di arrivare all’epilogo della faccenda.
Essere preparati, ha spiegato il Papa, che ha fatto ricorso a tre celebri racconti evangelici per addestrarci a reggere l’impatto con Gesù che viene a “giudicare i vivi e i morti”. E qui non mi tengo. La parabola delle vergini stolte e di quelle sagge, la prima citata, non l’ho mai capita. Primo perché in 10 sposavano uno solo, e se la poligamia poteva essere contemplata nelle periferie dell’impero romano è davvero inconcepibile per un soggetto intellettualmente normodotato, nato e cresciuto dopo la rivoluzione femminista degli anni 70. Poi la cosa dell’olio e delle lampade ha addirittura del grottesco: che senso ha prendere le lampade senza l’olio? E poi quando mai 10 single si addormentano in attesa del promesso? E ancora quanto sono ingenerose (per usare un eufemismo) quelle sagge che non danno un po’ di olio alle amiche distratte? E vogliamo parlare dello sposo che prima era pronto ad impalmarle tutte e poi dice di non conoscerle solo perché sono in ritardo di qualche minuto (le spose non lo sono sempre)? E infine quella frase tombale: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. Da brividi.
E poi c’è un episodio che ancora mi tormenta. Alle elementari delle brave suore ci fecero drammatizzare la vicenda e a me, fasciata in tunica bianca lunga tanto da inciamparci, capitò ovviamente di essere tra le cinque sceme. Non mi sono ancora ripresa. Certo sarebbe stata un’altra cosa se l’avessero messa come Francesco. Che ha puntato sul desiderio dell’incontro. Sul vedere i segni della presenza di Cristo, sulla vigilanza per non addormentare una fede che deve far ballare il cuore e la vita.
Le vergini si assopiscono perché dimenticano l’amore. La stoltezza è nel non riconoscere che l’incontro con lo Sposo è quanto di più bello possa capitare. E lo si vuole, ancora e ancora. Proprio come quando si ama. Di ciò che spalanca cuore, cervello, braccia, occhi e persino portafoglio (comprare l’olio, ricordate, quanto di più caro c’era al tempo), non se ne ha mai abbastanza.
La vita da cristiani addormentati cozza anche con l’altra parabola richiamata dal Papa, quella dei talenti. È ovvio che se il credente è tutto compreso nell’attesa non può chiudersi in se stesso, ma vive in azione. Il cristianesimo è dinamico: creatività, operatività, generosità. Bergoglio lo ha detto con il solito vigore: “La vita non ci è data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data perché la doniamo”. Non si possono sotterrare i talenti, ma scommettere sugli ideali che allargano il cuore. È la strategia per arrivare al momento della separazione tra chi merita e chi non merita, il Paradiso s’intende (ultima parabola), senza paura. Perché si è ben vissuto. Anzi di più, perché la vita è stata una sfilza di momenti di assoluta felicità. Una cosa è certa, infatti, la vita da innamorati è una vita felice. Ma bisogna prendere molto caffè e rimanere svegli.