Cosa porta a vestirsi, annodarsi la cravatta davanti allo specchio, infilarsi la giacca, aggiustarsi il bavero che resta inavvertitamente alzato e mettersi in tasca una pistola? Cosa porta ad andare in piazza in una giornata di primavera e quella pistola decidere di estrarla davvero? Cosa porta a sparare a due carabinieri mai visti prima che in piedi vigilavano sull’ordine pubblico? Si chiama odio.



È l’odio che decide di passare all’azione e dare forma e sostanza al suo contenuto; quando lo fa ci scandalizza e suscita orrore, ma prima di passare all’atto è un odio che si radica nel pensiero, ed è quello stesso odio che parassita i pensieri di molti senza arrivare a tanto. È l’odio sistematico per l’altro, l’odio per il rapporto in cui l’altro si presenta come potenzialmente benefico. Non è roba da pazzi, è roba di chiunque si ponga radicalmente al di fuori di un pensiero di partnership con l’altro.



Abbiamo letto delle difficoltà personali dell’attentatore, ma queste non possono affatto giustificare un gesto così: la perdita del lavoro e la fine di un amore, dentro il dispiacere del loro accadere, avrebbero potuto anche aprire ad altre prospettive, a chiedere aiuto, a identificare soggetti affidabili cui rivolgersi, ad allargare eventualmente il giro delle proprie conoscenze alla ricerca di una soluzione. La crisi economica non c’entra, è il pensiero di quest’uomo a essere entrato in crisi. Quando l’altro, per principio, smette di essere favorevole, alla fine diviene nemico, e un nemico indistinto. Così perde la sua specificità e unicità per farsi totalmente indifferente. Sparare a uno, due o venti poliziotti in fondo cambia poco, in questa prospettiva, e se moriranno tutti poco importa, perché tanto non esistevano già più. Ridotti a puri bersagli i due in divisa non erano vivi nemmeno prima di ricevere i colpi, non erano pensati come aventi affetti, desideri, ambizioni, paure, attese e preoccupazioni. Agli occhi di chi ha sparato erano come le sagome dei tiri a segno dei luna park. Non erano più soggetti dai quali, fra l’altro, l’attentatore stesso stava ricevendo il bene della sua sicurezza, in quella piazza.



Abbiamo assistito a un atto di terrorismo individuale, dove l’odio per l’uomo e la societas che può costituire si è espresso in una forma compiuta, a suo modo perfetta, con un atto di violenza indistinta e per questo così assurda.

L’atto è stato sì individuale, ma si inscrive appieno all’interno di una cultura dell’odio, quella che vede solo nemici da abbattere e impedimenti da rimuovere. L’atto resta individuale, ma si nutre di una visione diffusa in cui la divisione in blocchi contrapposti impedisce l’accesso all’idea di compromesso, di negoziazione, di risoluzione pacifica di un conflitto. È l’odio militato di una cultura senza padre, dove padre è principio di acquisizione legittima, ereditaria, del reale, principio secondo il quale l’altro da me si fa partner o socio per la realizzazione di una soddisfazione individuale e al contempo comune.

Tale errore, sempre individuale, fomenta e a sua volta trae alimento da un errore collettivo, in un ciclo perverso. L’unica soluzione è l’accesso a un pensiero nuovo, in cui soggetto e altro ritrovino il loro posto. È la pensabilità, sempre possibile, di una legge di moto comune che renda realizzabile e fattiva la partnership fra gli uomini per una convivenza pacifica, dove il conflitto non sia eliminato, ma ricomposto e risolto, dove il bene dell’uno non sia in contrasto con quello dell’altro, dove anche il nemico venga riconosciuto e giudicato, non abbattuto.

Nella storia dell’uomo c’è già stato uno con un pensiero così, si tratta di riconoscerlo e seguirlo, facendo nostro quel pensiero di beneficio.