Premessa: a me Tommaso sta simpatico. E non solo perché è il santo di cui porta il nome il mio nipotino prediletto, ma perché è l’apostolo più “tamarro”. Me lo sono sempre immaginato a discutere con tutti gli altri che raccontano sbalorditi l’incontro con Gesù Risorto intorno a un tavolo con vino e cibo in abbondanza, e lui che mentre addenta un pezzo di pane, forse un po’ alticcio, dice che no, che lui non ci crede.



Scusate, sfido chiunque a mostrarsi più ragionevole in circostanze simili. L’aveva visto soffrire l’indicibile, morire in Croce, aveva sentito del suo corpo avvolto in un telo e poi sigillato in un sepolcro nuovo di zecca, era già divorato dal dolore della perdita, ci credo che non osava sperare. In più era sempre stato un po’ rallentato. Non è lui che nel Vangelo di Giovanni sta lì ad interrompere il discorso di addio di Gesù, nell’ultima cena consumata insieme, con domande irritanti, quesiti che mostrano un’incapacità cronica di capire, l’idiozia di chi non riesce proprio a cogliere il senso di ciò che accade? (Giov 14,5).



Certo condivide i tempi del botta e risposta con Filippo, ma questo non lo fa più furbo. E’ il prototipo del discepolo che non capisce un tubo, ma che non molla. Così testardo che persino quando tutti gli altri gli dicono “l’abbiamo visto” non si fida. E come potrebbe. Era abituato alla presenza del Nazareno, lo aveva toccato infinite volte, lo aveva seguito per mezza Galilea, aveva mangiato, riso e bevuto con lui in bettole e case di amici. Lo aveva visto respirare e parlare, compiere prodigi, scacciare demoni e tuonare contro i farisei. Insomma aveva fatto esperienza della sua carnalità, nella vita come nella morte. Ed era ciò che lo aveva affascinato: una umanità totalizzante e amorevole, a portata di mano, sperimentabile.



Ora è ovvio che un “tamarro” non si accontenta di un racconto, neanche di quello degli amici. Vuole vedere. E Cristo che fa? Lo accontenta: con la stessa pazienza con cui pochi giorni prima aveva ripetuto cose che non gli entravano in zucca. Dopo una settimana torna e si fa vedere. Ecco il mio costato ferito, ecco le mani lacerate dai chiodi. Secondo me Tommaso ha pianto. Ha inondato di lacrime il corpo di Gesù, dopo averlo palpato, annusato, sentito pulsare attraverso la carne splendente di Gloria.

“Mio Signore e mio Dio” dice. Lo riconosce e – ha detto Papa Francesco nel suo commento al Vangelo domenicale – “si lascia avvolgere dalla misericordia divina”. Fortunato Tommaso. “Tamarro”, ma fortunato: si scontra nuovamente con la regale umanità di Cristo, con il suo infinito amore per l’amico-creatura, con un Dio che si è fatto carne, è sceso agli inferi e si è poi palesato nella sua divinità. E questo è il destino di Pietro, dei discepoli di Emmaus, degli apostoli intimoriti dalla crocifissione eppure desiderosi di rivederlo. 

Il pontefice ne ha parlato nel pomeriggio romano speso nella “sua” Basilica. Quella di San Giovanni in Laterano. Prendeva possesso della Cathedra romana del vescovo di Roma. Quella a cui tiene di più. E invece di attardarsi nello spiegare il perché dell’insistita predilezione per il termine “Vescovo” rispetto a quello di “Pontefice” (cosa che gran parte di vaticanisti e osservatori aspettavano con golosità) è tornato al tema caro della misericordia e della tenerezza di Dio.

Misericordia è la parola che ha pronunciato più volte in questa alba di pontificato. Non è un caso evidentemente. Così come non è un caso che citi anche lui, come già fece Ratzinger nel saluto ai cardinali dentro la Sistina, un teologo come Romano Guardini. “Dio risponde alla nostra debolezza con la sua pazienza e questo è il motivo della nostra fiducia, della nostra speranza”. Da una parte Cristo, Misericordia pura, pazienza infinita. Dall’altra i “tamarri” di oggi, noi increduli per definizione, bisognosi di tuffarci nelle ferite del Signore per “succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia, cioè gustare e e sperimentare quanto è buono il Signore” (ancora una bellissima citazione di Francesco: san Bernardo sul Cantico dei Cantici).

Ricordate “l’incredulità di Tommaso” dipinta dal Caravaggio? Quello zoticone con la fronte aggrottata e una mano sul fianco, in posa da guitto che affonda il dito nella piaga di un Cristo sublime nella sua perfezione. E’ l’Apostolo mentre verifica che tutto sia vero. Un particolare mi ha sempre colpito del quadro: è Gesù che guida la mano di Tommaso, mentre il dito dell’incredulo non tradisce tremore, ma bramosia. Si tuffa nelle ferite per essere sicuro dell’amore di Cristo, non indugia sul suo peccato, ma si lascia inondare dal sangue dell’Agnello. Tocca la misericordia e non la molla. “Tamarro”, sì, ma mica scemo.

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