Stiamo cominciando a vivere un tempo nuovo. Con la crisi, stiamo davvero entrando nel XXI secolo. E l’arrivo di Papa Francesco – il Papa che viene dall’altra parte del mondo – costituisce un’occasione straordinaria per rimetterci in moto.
L’idea di convocare i movimenti ecclesiali per la veglia di Pentecoste è davvero preziosa: come le ali del corpo ecclesiale, nella storia della Chiesa i movimenti hanno sempre avuto il compito di aprire la strada, di battere sentieri nuovi, di esplorare soluzioni inedite. Per questo, viene naturale associarli allo Spirito. Non perché esso non soffi anche altrove. Ma perché è proprio lì, in quelle che possono essere pensate come avanguardie del cristianesimo, che la Sua manifestazione è risultata, in tanti momenti, particolarmente nitida.
Come sociologo so che la dialettica movimento-istituzione è costitutiva delle forme umane. Il movimento è più dinamico, valorialmente più intenso, aperto alla creatività e al futuro. Esso costituisce il lato dinamico del momento istituzionale verso cui inevitabilmente si tende. Movimento e istituzione costituiscono quel doppio dinamismo che rende possibile tanto il cambiamento quanto la permanenza. Anche sotto questo profilo, traspare la sapienza della Chiesa…
Il punto naturalmente è che qualsiasi esperienza di movimento, quando ha successo e dura nel tempo, tende a trasformarsi in istituzione. Anche se continua ad autodefinirsi movimento. La metamorfosi si realizza nel momento in cui l’organizzazione comincia a pesare e quando la preoccupazione del proprio futuro tende a prendere il sopravvento, sostituendo la freschezza dell’inizio con la rigida ripetizione e la tendenza ad una progressiva chiusura. Quando ciò accade, i mezzi tendono a diventare fini. Causando la progressiva involuzione dell’esperienza.
Per i movimenti ecclesiali, la cartina di tornasole è la loro trasformazione in Ong o in sistemi organizzativi che, preoccupati della loro efficienza/sopravvivenza, dimenticano l’origine, finendo per omologarsi alla logica mondana.
Nessuno puó ritenersi esente da questa deriva.
Ma ecco che Francesco, con il suo stile diretto e autobiografico, indica il modo per evitarla. Sono tre i passi che il Papa suggerisce per tenere aperte le porte all’opera dello Spirito. Rimanendo così movimento.
Il primo ha a che fare con l’origine. Che è sempre un incontro personale. La fede, dice Francesco, è scoprire che la propria vita è tenuta per mano. Occorre lasciarsi “guardare da Dio” così da capire di non essere autofondati. L’idea di una preghiera come modo di lasciarsi guardare da Dio è la chiave per ristabilire l’ordine delle cose.
Il secondo passo è quello della testimonianza. Si può testimoniare solo ciò che si è visto e conosciuto. Per questo, incalza Francesco, si comunica con l’amore, non con le nostre idee. In questo senso, nell’epoca in cui le parole non hanno più spessore, più che di maestri, abbiamo bisogno di testimoni. Perché è solo a queste condizioni che l’uomo contemporaneo è disposto ad ascoltare un annuncio.
Il terzo passo è quello di aprirsi e di andare alle periferia dell’esistenza. È solo questa continua riapertura che rende davvero possibile il movimento. La chiesa che rinuncia a questo dinamismo originario, si chiude e, di conseguenza, si ammala. Il Papa arriva a dire: “Preferisco una chiesa incidentata piuttosto che una chiesa ammalata perché chiusa”. Bergoglio lancia, dunque, un messaggio chiaro: mai come in questo tempo che minaccia l’uomo occorre tornare a spingerci verso l’altro. In particolare verso le periferie dell’umano, che ci costringono a mettere in discussione le nostre certezze e ad accettare il passo vero dell’umano.
Sono questi i tre dinamismi che il Papa indica come qualificanti tanto per la Chiesa istituzione quanto per la Chiesa movimento. Persino al di là di come ci definiamo.
Per far fronte alle sfide del XXI secolo importa riuscire a rimetterci in moto. Con Dio e verso l’uomo.