“L’uomo e la donna che lavorano sono degni”. E’ un’affermazione di Francesco. Fatta dall’ambone, ieri mattina, nella cappella di Santa Marta, nel giorno di San Giuseppe lavoratore, primo maggio, festa dei lavoratori. Amen. Devo dire che qualcosa stride e per una volta non sono d’accordo con Papa Bergoglio. Non tanto sull’essenza, quanto sulla perentorietà dell’affermazione. Perché se fosse semplicemente e inesorabilmente vero quello che ha predicato nell’omelia quotidiana, varrebbe anche il contrario, vale a dire che quelli che non lavorano, non hanno quella che lui ha chiamato dignità speciale, “dignità di persona”. Potrei obiettare inoltre che ci sono molte persone che lavorano e che non sono degne. E nella mia limitata e particolarissima esperienza ne ho incontrate molte. Ma dato che esiste, prima dell’infallibilità, una ragionevolezza del magistero petrino, voglio analizzare la cosa.



Forse bisogna fare un passo indietro rispetto a questo primo maggio disastroso che ci capita di vivere, e trovare l’originaria significanza di termini come “lavoro” e “dignità” per capire quello che Francesco oggi ha voluto indicare come tema per la presenza cristiana nel mondo. Perché è indubbio che nel magistero quotidiano di Santa Marta, il Papa cerca di insegnare, con pazienza, la grammatica della fede. Quella consuetudine cristiana che è fonte di felicità e senso della vita. E non si è felici se non si lavora o se il lavoro è l’anticipo dell’inferno. Il punto di partenza è sempre lui, il figlio del falegname. Ora qualche esegeta colto storcerà il naso, si sa bene che Giuseppe era qualcosa di più del pio buon uomo rappresentato con martello, pialla e assi da segare. 



I moderni studi tendono a considerarlo un carpentiere di livello, capomastro, incaricato di edificare insieme a molti ebrei di Nazareth la vicina città romana in costruzione. Qualcuno ha persino pensato di paragonarlo a un piccolo imprenditore giudeo, che gestiva appalti concessi dai rappresentanti dell’impero. In ogni caso oggi, molto facilmente, per età e condizione, farebbe parte del folto gruppo di esodati o peggio ancora dei piccoli artigiani al collasso psico-economico, prossimi al baratro della disperazione. Se non fosse che nella sua piccola azienda a conduzione familiare c’era pure un trentenne di buone speranze che con tutta probabilità costruiva le sedie, i tavoli o le impalcature più belle della Galilea. Il figlio del carpentiere, l’icona di Dio lavoratore, spiega la dignità propria, e persino la sacralità, di una persona che lavora. 



Una dignità che nasce dal “dovere e dal perfezionamento dell’uomo”, dal suo “dominio sul creato”, dal “servizio alla comunità, prolungamento dell’opera del Creatore, contributo al piano della salvezza” come si legge nella Gaudium et Spes. Insomma il lavoro, per i cristiani, fa  parte del piano di amore di Dio. “Unge” di dignità, riempie di dignità, rende simili a Dio. Evidentemente qualcosa di più che guadagnare il pane. Per questo il tuonare di Bergoglio nella cappellina di Santa Marta, come in piazza san Pietro, contro una società che non paga il giusto, che non dà lavoro, che guarda solo ai bilanci e non al valore del lavoratore, che tratta gente disposta a sgobbare per 12 ore al giorno e a rischiare la vita in edifici traballanti per 38 euro al mese, come schiavi. 

Qualcuno avrà pensato che con la sua figura imperiosa, le parole appassionate, l’impeto del predicatore non avrebbe sfigurato sul palco del concertone o accanto ai rappresentanti sindacali, nella liturgia laica che ogni anno piange le morti bianche, gli indici di disoccupazione, i suicidi della busta paga o dei mutui inevasi. Ma la sua saggezza ha radici più profonde che qualche manuale morale o sociale ottocentesco. Lo dimostra la storiella yiddish raccontata ai fedeli che hanno assistito alla sua messa, con il rabbi medioevale che alla sua comunità narrava dei tempi della torre di Babele, quando un mattone era più prezioso di una persona, e se cadeva il primo riducendosi in briciole era una tragedia mentre l’operaio che inavvertitamente scivolava giù veniva accompagnato solo da una preghiera. 

L’ansia di potere, l’egoismo di pochi, il desiderio di superare Dio nell’opera creatrice porta a sacrificare quanto di più importante ci dovrebbe essere: l’uomo stesso, la sua essenza, l’essere a immagine e somiglianza del Signore. Per questo l’appello accorato, del pontefice, per un intervento immediato dei governi a favore dell’occupazione. E quelle domande che bruciano ai novelli Caini: “Dov’è tuo fratello che non ha lavoro? Dove il fratello ridotto a schiavo?” Ma potremmo aggiungere quello con le buste paga da fame? Il cassaintegrato, il mobbizzato, il sottoutilizzato, il discriminato? Colui che non si rassegna a timbrare un cartellino ma vuole partecipare con la sua creatività all’opera? Dove sono la Giustizia e la Verità nel mondo del lavoro?

Non so se Bergoglio come perito chimico (prima attività) si sia mai iscritto ad un sindacato. Ma so che avrei voluto essere rappresentata da lui.

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