Il direttore della Sala Stampa Vaticana è stato costretto ad una dichiarazione ufficiale: “Papa Francesco ha salutato perfettamente allo stesso modo le squadre della Roma e della Lazio”. Nessuno si è sentito disturbato da un gesto o una parola di troppo. Chi pensa che tanta gesuitica attenzione sia ingiustificata e decisamente fuor luogo dovrebbe fare un giro alla vigilia del derby nella capitale. Famiglie lacerate, vicini che si guardano in cagnesco, bambini invasati avvolti di giallorosso o biancoceleste, speaker radiofonici posseduti, indice di conflittualità sui luoghi di lavoro che subisce improvvise e deflagranti impennate. Il calcio è una cosa terribilmente seria. Il tifo ancora di più. Specie se vissuto nella città eterna, dove ci si è allenati per secoli alla fede e al martirio, ma anche all’ossessiva passione per la squadra del cuore. Qui gli abitanti di sesso maschile (ma non solo) si distinguono per generi faunistici: lupi e aquilotti. Il campo è un’arena, i giocatori gladiatori, e lo scontro una battaglia capace di scatenare la barbarie.
Per questo vedere ieri il capitano romanista Francesco Totti e l’omologo laziale Christian Ledesma in prima fila, insieme all’udienza generale del pontefice, ha fatto scalpore e credetemi nei taxi della capitale, versione capitolina del “bar dello sport” non si sentiva gracchiare d’altro. Era inutile sperare in un cenno di preferenza: come noto nel cuore di Bergoglio non c’è posto che per il San Lorenzo, squadra argentina di alterne fortune, ma i team hanno comunque ingaggiato l’ennesima sfida per contendersi la simpatia pontificia: maglietta con tanto di “Papa Francesco” stampato in dono dai giallorossi e riproduzione di uno scudetto della squadra offerto dai biancocelesti.
E poi le fluviali dichiarazioni post-incontro, condite dall’obbligata commozione e dalla retorica di rito: “le cose più importanti della vita sono pace, fiducia e armonia, e la visita al Papa le ha evidenziate” (Zanzi), “Porterò sempre nel cuore le sue parole” (Andreazzoli), “Essere qui è un messaggio di distensione e di rispetto dell’avversario ai tifosi” (Lotito), fino all’auspicio che l’incontro in piazza San Pietro “sia il simbolo dell’unione di intenti in merito alla partita che tutti speriamo sia caratterizzata dal fair play e dalla legalità”(Pallotta), dove l’ultimo riferimento è alla finale di Coppa Italia. Essì il provvidenziale incontro sul sagrato di San Pietro avviene, infatti, alla vigilia del derby aggiunto, quello fuori campionato, per niente depotenziato dalla collocazione oltre classifica, tanto che già mille uomini delle forze dell’ordine sono in allerta per garantire lo svolgimento del match.
Solo qualche numero per dare un’idea del livello di tensione: meno di due mesi fa, nell’ultimo rito calcistico consumato all’olimpico tra i due club, si contarono ben 8 accoltellati, 4 tifosi arrestati e imprecisati scontri nei quartieri di ponte Milvio e Flaminio, trasformati in scenari da guerriglia urbana. Non un’eccezione purtroppo. Nella lunga serie di derby non sono mancate violenze, tensioni e persino vittime. A conferma che, come dicevamo prima, il calcio è una cosa terribilmente seria. Quello che si può augurare, in vista dell’assegnazione della Coppa, è che calciatori, manager, allenatori e soprattutto tifosi abbiano ascoltato bene quanto detto da Francesco (non Totti, ma Bergoglio) nella sua catechesi dedicata allo Spirito Santo e all’evangelizzazione. Che qualcuno prima di calpestare il campo (che si prevede molto bagnato) o di occupare le rispettive curve, provi a farsi le domande lanciate dal Papa alla folla di San Pietro: “Porto la parola di riconciliazione e di amore che è il Vangelo negli ambienti in cui vivo?”. E ancora “Io che cosa faccio con la mia vita? Faccio unità attorno a me? O divido, con le chiacchiere, le critiche, le invidie? Che cosa faccio?”. Non sono quesiti relegati alla coscienza asettica e disincarnata. Sono graffi per le anime di tutti: comprese quelle dei giocatori stellati o dei tifosi accaniti.
Se c’è qualcuno che si fa il segno di croce in segno scaramantico prima di tirare un rigore, che alza il cielo al dito dopo una rete prodigiosa, che recita l’Avemaria quando mancano pochi secondi al termine della partita, ebbene in quanto cristiano non è esente dall’invito di Papa Francesco a “portare il Vangelo”, ad “annunciare e vivere per primi la riconciliazione, il perdono, la pace, l’unità e l’amore che lo Spirito Santo ci dona”. Certo nessuno si aspetta baci e abbracci sul rettangolo di gioco o pacche sulle spalle tra supporters negli spalti, ma una sensibile diminuzione di odio tra opposte tifoserie sarebbe un segnale nuovo. Badate non è un sussulto moralistico, ma una questione essenziale, che riguarda il calcio, come la politica, il lavoro, la scuola, la vocazione di ciascun cristiano. La linea che la fede non si esibisce davanti alle telecamere ma nella carnalità delle passioni, anche tra le pieghe di un amore totalizzante e, a volte incomprensibile, come quello per la propria squadra. Che nulla e nessuno è estraneo a Cristo. Che il Vangelo, come ripete Francesco, deve essere testimoniato con la vita. In una coerenza non sterile, né ideologica. Allora sì che si potrà godere appieno per un goal. Di Francesco (Totti).